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lunedì, Luglio 28, 2025

Sari, la grazia nella polvere

Avventure e disavventure di un povero viaggiatore su strade e tratturi della grande India

Sono passati già un po’ di anni dal mio ultimo viaggio in India, ma certi ricordi restano così vivi che, se chiudo gli occhi, riesco ancora a sentire le emozioni che mi hanno attraversato.
Una, tra tutte: l’eleganza delle donne che indossavano il sari.

Non immaginate un abito da città, ma un vestito indossato per i lavori quotidiani, anche i più umili.

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Nelle campagne, in mezzo al verde dei campi, le vedevo raccogliere sterco di bufalo, accudire il bestiame, sistemare le piante: sempre con una grazia innata, avvolte in tessuti dai colori sgargianti.

In quel viaggio attraversavo il Rajasthan per strade rurali, fuori da ogni rotta turistica. Cercavo la semplicità della vita contadina.

Uscito da Delhi, da quella povertà brutale che sembra occupare ogni angolo, la campagna mi appariva più umana, quasi terapeutica: una forma di respiro, di fiducia nella vita.

Spesso mi fermavo sul ciglio della strada per osservare quelle figure colorate: donne che lavoravano insieme, in silenzio, con naturale eleganza. Le vedevo disporre, con cura quasi artistica, le pagnotte di sterco ad essiccare sui muri, per poi impilarle in piccole cataste a forma di casetta.

Altrove, modellavano piatti d’argilla, li decoravano a mano prima della cottura, stendendoli al sole in perfetto ordine.

Non c’era tratto di strada senza un tocco di colore: un linguaggio silenzioso, ripetuto come un codice o una memoria culturale.

Avevo letto che ogni colore ha un significato: il rosso è quello della sposa, simbolo dell’energia femminile divina; il giallo rappresenta la purezza; il viola la regalità spirituale.
Ma poi, sul campo, mi sembrava che ogni combinazione trasmettesse un messaggio più sottile, un’identità sociale difficile da decifrare.

Quando incrociavo gli sguardi, le vedevo coprirsi il volto con un gesto rapido, pudico.
Più tardi avrei scoperto che quel gesto si chiama ghoonghat e rappresenta rispetto verso gli uomini estranei, gli anziani, o figure di autorità. Non è sottomissione, ma una forma di decoro, di educazione secondo il loro codice culturale.

Quel mondo sembrava muoversi in punta di piedi. La grazia non era solo innata, era coltivata, appresa fin da bambine: una parte silenziosa dell’educazione, tramandata da madre a figlia.

Molte donne avevano sari con minuscoli specchi cuciti o perline, e sul volto e sulle braccia piccoli gioielli, bracciali di lacca colorata, cavigliere d’argento, talismani contro il malocchio.
Le loro mani spaccavano mattoni, ma ai polsi brillavano braccialetti. Il sari, impolverato, si accompagnava a monili leggeri. Nulla sembrava fuori posto, ma per me tutto era straordinariamente insolito.

Il sari è uno degli indumenti femminili più antichi ancora in uso, risalente a oltre 5000 anni fa. Una semplice striscia di stoffa, senza bottoni né cerniere, drappeggiata sul corpo.

Un abito che sembra abitato. Che cuce insieme tempo, terra, riti e stagioni. E che racconta, in silenzio, la storia delle donne d’India.

Perdonatemi se in questo racconto non riesco a restituire tutto lo stupore che ho provato.
Ma se un giorno vi perderete nelle campagne indiane, vi assicuro che non saranno le dimore dei Maharaja a stupirvi. Saranno queste farfalle colorate, che accudiscono con grazia antica un mondo intero.

Al prossimo lunedì. E come sempre: Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene. Stay Wild, Stay Shanti.

(13 – continua)

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