Osservazioni per #oltreognivittoria che prendono spunto dalla Mens Sana ma sono valide anche per il Siena o altre società
Nel racconto post-partita di una sconfitta, come quella subita dalla Mens Sana contro Serravalle, si agitano tante esigenze diverse. Il pubblico vuole una spiegazione. Il giornalista prova a offrirne una leggibile. Ma lo staff tecnico non può e non deve muoversi allo stesso modo.
Chi lavora all’interno di una squadra deve mantenere una distanza precisa e funzionale da questi due piani. Non per arroganza, ma per metodo. L’analisi tecnica ha una regola fondamentale: si parla poco di ciò di cui parlano tutti, e molto di ciò che riguarda noi. Con dati, video, fatti.
Le reazioni esterne sono inevitabili, e in certi casi anche legittime. Ma chi gestisce la prestazione non può adeguare la lettura tecnica alla narrativa. Una sconfitta non è automaticamente sintomo di crisi. Una vittoria non è sempre prova di crescita. E una squadra, per definizione, è un sistema complesso: fatta di persone, dinamiche, fasi. È la stessa prima e dopo una partita. Cambiano le condizioni. Cambia la prestazione.
Il punto è che nel mondo sportivo professionale le partite non si vincono o perdono “sulla carta”, né si spiegano solo col senno di poi. Ogni gara ha una vita autonoma. Ogni minuto, ogni possesso, ha un valore proprio, non derivato. La lettura giusta non è quella del risultato, ma quella della sequenza esecutiva.
Il rischio, per chi lavora nello staff, è di lasciarsi influenzare dal cosiddetto “rollercoaster” emotivo: quando si vince si tende a vedere tutto in luce positiva, quando si perde si cercano colpe. Ma così si perde lucidità. Lo staff tecnico non è chiamato a giudicare: è chiamato a misurare, leggere e correggere.
In questo senso, serve ricordare un’altra cosa che spesso si dimentica: gli avversari esistono. Preparano la partita, studiano, sfruttano ogni varco. A volte fanno semplicemente meglio. Non è una giustificazione: è un fattore tecnico. Una squadra può eseguire bene e perdere lo stesso. Non esiste un’equazione automatica tra qualità e risultato. E una partita – soprattutto in campionati lunghi – va letta nella sua specificità, non come parte di un racconto emotivo che si scrive solo in base al punteggio.
Un altro errore diffuso riguarda il concetto di “squadra”. Quando si vince, si è squadra dal primo all’ultimo. Quando si perde, lo spazio si restringe a chi è andato in campo. Questo è un bias che si insinua anche dentro gli staff, e va evitato. Il concetto di squadra deve rimanere operativo, non emotivo. Il sistema è uno, nel bene e nel male.
Infine, va detto che anche se può sembrare freddo, il mestiere tecnico impone una forma di disinteresse strategico: non si può basare il lavoro sulle aspettative, sulle impressioni, su ciò che “doveva succedere”. Si lavora su ciò che è successo, su ciò che succede, su ciò che si può cambiare.
Serve rigore. E serve una regola base: una partita alla volta, un’azione alla volta, un pallone alla volta. Non come slogan, ma come pratica quotidiana. Non si gioca sulla scia di quello che è stato, né proiettati su quello che sarà. Si gioca il presente, con tutto quello che comporta. Sempre.
“You don’t rise to the level of your expectations, you fall to the level of your training.”
Una frase semplice, ma che spiega tutto. Si compete per quello che si è, non per come ci si immagina. Il resto, è racconto.
Paolo Benini