Avventure e disavventure di un povero viaggiatore che si scorda di alimentare la stufa
Nelle scorse puntate ho raccontato di valigie smarrite, the salati e scarponi troppo rigidi.
Oggi invece, voglio raccontarvi di una giornata “normale”, verso uno dei laghi più strani e affascinanti mai visti...
Oggi ho intenzione infatti di raggiungere Terkhiin Tsagaan Nuur.
Liberata la moto dal pantano causato dalla pioggia notturna, mi sono messo a riflettere sul nome della mia meta. Ormai avevo capito una cosa: qui i toponimi uniscono spesso una qualità visiva (come il colore) a un elemento naturale (acqua, montagna, valle). A forza di studiare le carte, avevo scoperto che Tsagaan significa “bianco”, Nuur “lago”. Ma Terkhiin… niente, non mi diceva nulla. Avevo cercato, senza successo.
Mentre rimuginavo, seguivo una linea immaginaria nei prati. Avevo il punto GPS di una stazione di rifornimento e, anche se era leggermente fuori rotta rispetto alla mia destinazione, non potevo fare a meno di passarci.
Una strana sensazione. Un leggero disagio, mentre ascoltavo l’erba assorbire i rumori e il motore emettere solo un sordo ronzio. Come se qualcosa stesse per accadere, e anche io e la moto potessimo, da un momento all’altro, sprofondare dentro questa strana superficie.
Dovete sapere che i grandi prati della steppa sono coperti di un’erba che assomiglia alla nostra gramigna. Le piste segnano il manto, ma appena le ruote incidono la coltre vegetale, vengono abbandonate. I mezzi tornano a camminare sull’erba, dalle lunghe barbe coriacee, che con la loro tenacia sostengono il passaggio, mentre la sabbia sottostante ti fa affondare inesorabilmente. Il risultato, agli occhi, è quello di una larghissima pista.
Un’area ondulata, in senso longitudinale al percorso, che spazia per decine di metri, dove le auto vagano o hanno vagato nel tempo. E l’erba, con un paziente lavorio, cerca di ricucire. Il vuoto ti circonda. Se non fosse per qualche animale brado, avresti la sensazione che il mondo sia scomparso, inghiottito da qualche cataclisma. E tu sei il solo essere rimasto, tra il cielo e la rada erba che lascia trasparire il sabbioso fondo giallo.
L’ansia sale. L’inconscio prende il sopravvento sulla fida tecnologia, e ti chiedi se il GPS ti condurrà veramente alla meta segnata… o se ti lascerà vagare in questo strano universo. La steppa mongola è uno degli ultimi grandi ecosistemi pastorali tradizionali al mondo, con milioni di animali bradi, allevati senza recinti, lasciati liberi di pascolare su territori vastissimi, sotto la sorveglianza dei pastori nomadi.
Si parla di settanta milioni di capi, non marchiati, riconosciuti a vista. La terra non è dei pastori ma totalmente dello Stato. I pastori ne registrano l’uso. Il sistema si basa ancora molto su regole orali, fiducia, rispetto dei territori familiari. Ogni famiglia conosce i suoi spostamenti stagionali: sa dove andare in estate, dove rifugiarsi in inverno. La mobilità è fondamentale: se si privatizzasse la terra, i pastori non potrebbero più muoversi liberamente. L’intero sistema collasserebbe.
Ripassare quello che avevo imparato era un esercizio per tenere occupata la mente, mentre l’occhio poteva spaziare. E i sensi sembravano dilatarsi, spingersi in territori così lontani da chiedersi cosa mai avrebbero portato indietro, al loro ritorno. Mentre guidi nel tuo mondo ordinario stai attento alle altre auto, ai segnali, alle persone. Eh sì… ma qui dove sono le persone?
Poco più di mezzo milione di pastori, dispersi su una superficie di quasi sei volte l’Italia: trovarne uno, a volte, è un evento. Pertanto, quando finalmente intravedo una gher, a ridosso di una collinetta, mi fermo. Un uomo è intento a scuoiare un montone. Non ho nulla da chiedere. Non saprei come. E non ho voglia di tirare fuori il mio costoso cellulare. La mia “protesi” mi sembrava quasi inopportuna.
Guardo il suo sorriso, la bocca sdentata, il formaggio messo ad essiccare al sole vicino alla tenda. Non sono le consuete forme, ma piccoli pezzi dell’apparente consistenza del gesso. Faccio un segno con la mano, tanto per avere contezza del sentiero percorso.
Lui mi risponde con un ampio gesto. Poi riparto.
Lo guardo nello specchietto mentre mi allontano. Non distoglie lo sguardo. Anche lui, forse, cerca di capire come uno stupido occidentale, incapace di badare a sé stesso, sia finito quaggiù.
Dopo un’altra buona ora, intravedo un casotto. Poi mi rendo conto: è una pompa di benzina. Vi potrà sembrare incredibile, ma è dispersa in un prato. Mentre mi avvicino scatto alcune foto, altrimenti nessuno mi crederà. Qui, anche la cosa più normale sembra straordinaria, caduta quaggiù come un meteorite. Rifornisco la moto. E la sacca dell’acqua.
Poi, finalmente, la dolce pianura. L’abitato di Tsetserleg (“orto fiorito”). Piccole case squadrate, tetti in lamiera, dai colori variopinti: rosso, azzurro, verdino. Sembrano finte, sagome di cartone ritagliate da un’abile mano. La scena di un film, dominata dal verde dei prati. Attori: gli yak. Si muovono lenti, liberi, vagano in cerca di un’erba migliore. In mezzo, le capre: chine, ferme, dipinte.
Arriva l’asfalto. Saliamo di quota. Un piccolo passo per aggirare la Bulgan Uul (“montagna del visone”). Devo chiudere bene la giacca. Il freddo entra e scuote le ossa. Il sole d’estate ha solo allentato, per un momento, la morsa del ghiaccio.
Ancora uno sforzo. La strada cambia colore: ora è nera, bruciata. Il vicino vulcano la incendia. Un’ultima, ripida china. La moto si scuote, conquista arrancando la cima. Ora Terkhiin Tsagaan Nuur, il grande lago bianco, compare.
Scarico la moto. Apro la gher. Mi sdraio, felice. In attesa del tramonto, con il corpo disteso sulla spiaggia che si forma e ti accoglie. Nella splendida quiete del lago, non un filo d’aria si muove. Il luogo è estraniante: intorno non vedi alberi. Il paesaggio sembra costruito con pochi elementi: il verde dell’erba, la sabbia scura, l’acqua.
Rimango a osservare la ferma linea dell’orizzonte. L’immagine sembra di cristallo.
Hai la sensazione che un movimento improvviso possa romperla. Il bacino è a circa 2.000 metri di altitudine, all’interno del Parco Nazionale Khorgo–Terkhiin Tsagaan Nuur. È un lago di origine vulcanica, formatosi da una colata lavica che ha sbarrato il fiume Terkh.


Stanotte mi sono dimenticato di alimentare la stufa. Avevo troppo sonno.
Al mattino, il freddo si è impossessato di ogni cosa. Anche i pensieri, congelati, sembrano rallentare. Devo trovare un modo di scaldarmi. La moto mi sembra l’ultimo dei miei desideri. Rabbrividisco al solo pensiero.
Ieri ho visto un uomo con dei takhi. Proverò a vedere se me ne noleggia uno: voglio raggiungere il vulcano Khorgo Uul. Sul bordo del lago ci sono altissime pile di sassi.
Non fanno parte della tradizione mongola, ma di un gesto spontaneo dei viaggiatori.
Sembrano una forma di interazione con il paesaggio. Un segno silenzioso, caduco, effimero. Che non rovina nulla. Che il tempo cancellerà.
Il cavallo ha un passo corto, un trotterello ignorante. Le mie povere terga, provate dall’arduo cammino, si arrendono, prostrate, al ritmo del minuscolo equino. Il luogo ha un fascino aspro. La pietra ora è nera, poi rossiccia, poi sfuma in un blu profondo. Si annoda, contorta, sotto ai miei piedi. La ripida salita non offre una stabile presa all’animale.




La rarefatta vegetazione fatica a vincere la lava millenaria che ricopre il terreno. Un rado bosco, cespugli di mirtilli mi circondano. Il ghiaccio occhieggia bianco, lucente, nelle grotte di lava. Perché uno dovrebbe vivere in un luogo così rarefatto, dove solo gli yak sembrano a loro agio? Come è possibile, qui, la vita?


Sono ormai a cinquecento chilometri dal popolo delle renne. E forse in un loro detto si nasconde la chiave: “Nessuno è obbligato a restare qui. Per questo, nessuno se ne andrà.”
Anche questa storia si conclude qui. Ma ce ne saranno altre. A presto. Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene. Stay Wild Stay Shanti.
(4 – continua)