Per “Insoliti viaggiatori” oggi prima parte di intervista con “Greta Supertramp – Viaggiare per Rinascere”, cioè Greta Trabacchin
Greta Trabacchin ha 35 anni, una voce gentile e un coraggio silenzioso. È una motociclista, ma soprattutto è una donna che ha imparato a fidarsi della strada quando il terreno sotto i piedi le è mancato davvero.
Ci siamo incontrati virtualmente grazie al progetto per sostenere Karma on the Road Aps, con il racconto di storie di viaggiatori e di resistenze interiori. In questa lunga conversazione, Greta ripercorre i suoi inizi incerti, la scoperta della moto come strumento di emancipazione, la diagnosi di un linfoma che l’ha colpita a 32 anni, e la lenta – ma determinata – riconquista della libertà.
Questa non è solo un’intervista. È un viaggio a due voci. Una testimonianza vera, fragile, potente.

Greta Supertramp – dalla paura alla rinascita
Come ti accennavo, lo scopo di questa intervista è dare una mano al progetto Karma On the Road Aps. Che raccoglieremo poi in un libro. Il titolo c’è già: Viaggio per umani. A me interessa la storia delle persone, non tanto l’impresa o la bandierina messa su ogni paese attraversato. Anch’io sono un viaggiatore motociclista, come te. Ma ad esempio, ho impiegato molto tempo prima di fare il mio primo viaggio in solitaria. Partiamo proprio da qui: quanto ci hai messo tu a decidere di viaggiare da sola?
Dai primi chilometri alla prima caduta
“Allora, partiamo col dire che fino a dieci anni fa ero una persona piena di ansie – anche se all’epoca non sapevo nemmeno di averle. Pensavo fossero solo paure, tipo il non saper fare le cose. Invece erano proprio ansie. Soffrivo anche di attacchi di panico, ma l’ho capito dopo. Per esempio: ho preso la patente della macchina nel 2009, ma a casa avevamo solo l’auto di mia mamma, senza servosterzo. Non riuscivo a guidarla. Quando ci provavo, arrivavo nei posti sudata fradicia dalla tensione – ma non capivo perché. Alla fine, usavo quasi sempre lo scooter di mio fratello. Era più facile. Poi sono passata alla moto. E secondo me è stata proprio la moto ad aiutarmi: imparare a guidarla, con le marce, mi ha dato fiducia anche per tornare a guidare la macchina. Mi ha dato coraggio, insomma”.
Qualcuno mi ha detto che rubavi il motorino a tuo fratello…
“In realtà non è che lo rubavo… È che lo scooter l’avevano comprato a lui, perché all’epoca lo scooter si regalava al maschio, punto. Io nemmeno ci pensavo a guidarlo. Ma poi lui andava a scuola in treno – diceva che c’erano troppi furti. E poi mio fratello è un po’ nerd: tastiera, computer e casa. A scuola ci avevano proposto il patentino per lo scooter, costava tipo 15 euro. Ho pensato: “Vabbè, potrebbe servire”. Così l’ho fatto, tanto lo scooter c’era. E da lì ho cominciato a usarlo, così, per caso. E ho scoperto che mi piaceva da morire stare in giro su due ruote”.

Primo motorino? Il mio è stato un Ciao. Forse ne hai visto qualcuno: è passato un bel po’ di tempo…
“Mia mamma aveva il Califfo. Viola”.
Grande! Per me il motorino è stata una liberazione: dal cortile di casa sono passato alla città.
“Eh, anch’io facevo 20 chilometri”.
Per me è stato l’inizio di un mondo. E per te?
“Forse allora non ci pensavo. È una cosa che si è costruita un po’ alla volta, come ingranaggi che iniziano a muoversi. Prima il motorino, poi la moto, poi ho iniziato ad andare un po’ più lontano… Non più solo casa-scuola o casa-parco con le amiche. Cominciavo ad andare, che so, sul Monte Grappa – che sono 50 chilometri. Poi ho conosciuto altri motociclisti. Nessuno intorno a me mi diceva cosa si potesse fare con la moto. E poi i social non erano come oggi. Vivevo nel mio piccolo mondo, senza sapere che si potevano fare tante cose con la moto. Poi qualcuno mi ha detto: “Andiamo a fare il passo”, e io: “Ma davvero si può andare così lontano con la moto?” Non avevo proprio idea”.

Cromilla, un’amica comune, mi ha raccontato del suo primo viaggio: con un Piaggio Sì, di 80 km/h, a un lago vicino a Roma con un compagno di scuola. Quello è stato il suo primo viaggio vero, fuori dal solito percorso. E il tuo?
“Oddio, ci sono stati tanti step. Ma il primo scoglio vero che mi ricordo bene è stato salire il passo dello Stelvio. All’epoca avevo una moto sportiva, una Suzuki GSX-R 600. La mia amica aveva la 750. Lei è anche più bassa di me e toccava appena a terra con le punte. In un tornante è caduta. Anch’io tremavo per la paura. I tornanti non finivano più. A un certo punto ho detto: “No dai, torniamo indietro, facciamo l’altro giro e li raggiungiamo da un’altra parte”. Ma poi siamo ripartite. Siamo salite fino in cima. C’era la musica sul passo – lo fanno spesso. E proprio mentre arrivavamo, parte “We Are the Champions”. Ci siamo abbracciate e abbiamo pianto. È stato incredibile”.
Bellissima storia. Mi hai fatto venire in mente un ricordo simile: a Marrakech, ultimo giorno di viaggio tra l’Atlante e il deserto, ci stava prendendo la malinconia… finché è partita “We Are the Champions”. Ed è tornato il sorriso. Quella canzone fa magie, eh?
“Eh, vedi! Secondo me la mettono apposta, quella canzone lì…”

Ma senti, scusami eh… La Suzuki è una moto bellissima, strepitosa. Ma che ti è venuto in mente di prendere una moto così complicata? Con tutto il rispetto, è bassa, potente, veloce… come prima moto seria, insomma, mi sembra un bello scoglio. Non si può guidare quella roba lì così, di punto in bianco!
“Beh, in realtà ho cominciato con una Ninja 250, più piccolina”.
Ah, già una sportiva comunque!
“Sì, ma non l’ho usata tanto. Poi ho iniziato a fare i primi giri un po’ più lunghi, tipo sul Monte Grappa. Dopo ho cominciato a lavorare, e la prima settimana andavo a lavoro in moto – perché la macchina ancora mi metteva ansia. Un giorno ho fatto un incidente. Niente di grave, ma la moto era distrutta. Non riuscivo a sistemarla. Mio papà, ovviamente, ha detto subito: “Basta moto!”. Ma dopo una settimana… ho preso un’altra moto. Quella è stata la GSX-R. Era il 2014, ero ancora giovane, avevo 25 anni, e mi piacevano le moto sportive”.
Mi fai sentire vecchissimo.

Una moto troppo sportiva? Forse sì, ma era bellissima
“Dieci anni fa avevo 25 anni e mi piacevano le sportive. E poi, tra l’altro, non mi piacevano nemmeno tutte. Però ho detto: vabbè, me ne prendo una usata perché comunque non avevo tanti soldi per prenderne una nuova. Le ho guardate tutte, e appena ho visto quel modello del 2008 – un po’ particolare, con quel faro tutto unito – ho pensato: “Questa moto è bellissima”. L’annuncio era pure vicino casa, quindi ho detto: “È tutto perfetto”. Ogni cosa sembrava incastrarsi. Ho pensato: “Questa è la moto mia”. E così l’ho presa. Solo che non l’ho nemmeno provata prima. Pensavo fosse più o meno come la Ninja, perché anche la Ninja 250 era un po’ sportiva… ma non così. Mi ricordo che mi ha accompagnato mia mamma a prenderla, e per riportarla a casa… una tragedia. Quando sono salita, mi sono trovata tutta bassa, con questi semimanubri chiusi, le braccia attaccate al corpo, e ho pensato: “Ma come si guida ‘sta moto?”. Infatti, alla prima rotonda sono andata dritta”.
“I primi due anni sono stati un disastro – continua il racconto Greta -. Io sapevo guidare a un’andatura regolare, piano ci riuscivo, ma avevo una compagnia che andava molto veloce. Sui passi di montagna non riuscivo a stargli dietro. Sapevo guidare, ma solo fino a una certa velocità. Dopo un po’, quella moto per me diventava ingestibile. Non avevo ancora imparato che dovevo spostarmi con il corpo – una cosa scema, ma tant’è. Loro andavano talmente forte, con quelle accelerate e frenate continue, che io non riuscivo a imparare niente. Mi ricordo che tornavo sempre a casa disperata. Ma siccome mi piaceva davvero tanto, ho detto: “Devo imparare a guidarla questa moto”. Poi è successa una cosa: ho conosciuto altri motociclisti che guidavano bene, cioè fluidi. Correvano veloci, ma senza quelle staccate improvvise. Guidavano con la stessa andatura. E con loro ho imparato a guidare. Dopo, quella moto non era più così terribile. E devo dire la verità: non era neanche così scomoda. Io non sono altissima, quindi ci stavo proprio bene su quella moto”.

Credo che ognuno abbia la sua moto perfetta. Io, per esempio, ho fatto l’Australia con un DR 650. Tutti mi dicevano: “Ma come fai? È scomoda, tutti quei chilometri…”. Ma io ero felice. La moto è leggera, posso rialzarla da solo quando mi cade, non ho problemi. L’ho scelta apposta: c’erano BMW, c’era di tutto, ma dissi no. Per me è più importante la praticità, piuttosto che essere super comodi.
Ma torniamo a noi. Mi raccontavi del primo viaggio… e anche di questa voglia di comunicare. Hai cominciato con i social più o meno in quel periodo?
Il viaggio come racconto
“Allora… diciamo che io ho sempre tenuto dei diari, scrivevo per i fatti miei, insomma.
Poi mi ricordo che per uno dei primi viaggi seri – quello a Capo Nord nel 2019, sempre con la Suzuki – ho iniziato a scrivere un vero e proprio resoconto, lo pubblicavo su Facebook come diario di viaggio. Tutti mi dicevano: “Che bello, scrivi bene!”. Io ogni giorno facevo il mio piccolo report. Mi piaceva, anche perché la gente mi scriveva: mi consigliavano dei posti dove andare oppure mi facevano i complimenti. Era bello, insomma… pensavo: stanno scrivendo a me? Io che sono così sfigata?”
Ma che sfigata! Anch’io ho sempre scritto durante i viaggi, faccio grandi report. E c’è un motivo preciso: scrivo per me stesso. Mi serve per fissare i ricordi. C’è una cosa che dico sempre: solo ciò che si ricorda è per sempre. Scrivere, fare foto, filmare… mi serve per imprimere nella memoria il viaggio.
“Lo dico sempre anch’io. Quando lo scrivi, è come quando studi: se rileggi tante volte una cosa, ti resta in testa. Io poi ho una memoria un po’… così. Anche con i video che faccio: metto la musica, e cerco di abbinarla bene ai momenti giusti. E allora poi li guardi tante volte, li memorizzi… E quando risenti quella canzone, ti torna subito in mente quel viaggio, quel momento, quella cosa che hai vissuto”.
È una cosa molto bella. Perché, in fondo, lo fai per te.
“Sì, beh… alla fine facciamo tutto per noi stessi. Penso che siamo un po’ egoisti”.
Gli altri pensano che lo facciamo per loro… ma alla fine lo facciamo per noi. E va bene così.
Senti, io conosco la tua storia, la grande resilienza che hai avuto. Se hai voglia, se te la senti, vorrei che me la raccontassi. È importante, perché può aiutare altri a capire che si possono superare anche le cose più terribili. Vorrei scriverla, se non è un problema. Hai avuto una forza d’animo enorme, e penso sia stato durissimo. Tornare alla vita, com’è successo a te, è qualcosa che vale la pena raccontare.
“Sì, sì, sì. Poi io dico sempre che è meglio parlarne. Perché più ne parlo, più esce fuori. Mi sfogo, mi libero”.
Raccontami un po’. Come hai scoperto questa malattia?

La salita più difficile
“Era il 2021. Mi ricordo che avevo appena fatto l’ultimo viaggio con la sportiva, a ottobre più o meno, in Spagna. Già pensavo di cambiare moto. Avevo provato quella di un amico, un V-Strom, e mi ero trovata benissimo: bella alta, vedevo tutto. Avevo pensato: torno a casa e mi prendo un’altra moto. Anche perché la mia era arrivata a 126.000 km, iniziava a rompersi. E poi, proprio l’ultimo giorno del viaggio, si è rotto lo statore. Mi sono detta: questo è un segno. Appena presa la Tenerè, mi sono messa in testa di farle subito i primi 1000 km. Pensavo: “Vado in Toscana, magari faccio l’Eroica”. Li ho fatti. E subito dopo… ho iniziato a star male”.
“Collo gonfio – racconta Greta -, un po’ di febbre tutti i giorni. All’inizio pensavo fosse solo un raffreddore da moto, perché guidavo la moto anche dopo il lavoro, tipo alle 22, per fare chilometri. Era novembre, insomma, faceva freddo. Il medico mi diede un antibiotico, ma non guarivo. Avevo sempre un po’ di febbre, tutti i giorni, e mi sentivo stanca. Un giorno, così per caso, mi sono toccata il collo e ho sentito un nodulo. Ho pensato: “Boh, magari ce l’ho sempre avuto e non lo sapevo”. Lo dissi a mia mamma: “Anche tu ce l’hai?”. Lei: “Sì, anch’io ce l’ho”. E allora pensai: vabbè… Ma continuavo a star male. Il medico mi fece fare altri esami. Alla fine, mi prescrisse una biopsia. Era fine ottobre. Tre giorni prima di Capodanno mi arrivò la diagnosi: linfoma. In più, era in pieno periodo COVID”.
Stavo per dirtelo… la malattia ha scelto proprio un momento perfetto per arrivare. Un vero casino.
“Esatto. Il mio ematologo mi aveva detto che, una volta iniziata la terapia, se avessi preso il COVID avremmo dovuto sospendere tutto, curare prima il virus e poi ricominciare da capo. Io invece volevo fare tutto subito. Avevo paura che, fermandomi, il tumore potesse progredire. Allora a casa tutti con la mascherina. Se uscivano, dovevano tenersi lontani da me. È stato durissimo. Ogni due settimane facevo il tampone, e ogni volta c’era l’ansia”.

E il momento della liberazione? Quando hai saputo di essere guarita, com’è stato? Io, anche se me lo dicessero, non ne sarei sicuro. Continuerei a chiedere: “Ma siete sicuri?”
“Quando ho finito tutto, il cervello si è bloccato un attimo. Dopo la chemio, ti fanno la PET: ti iniettano uno zucchero, e se c’è ancora il tumore si vede perché si attacca lì. Il risultato sarebbe dovuto arrivare dopo qualche giorno, ma sull’App della Sanità del Veneto è arrivato subito. Appena sono tornata a casa, stavo per entrare e ho visto che c’era già l’esito. Ho detto a mia mamma: “È arrivato l’esito, lo apro”. L’ho aperto… e non sapevo neanche che riga leggere. Avevo paura. Poi ho letto: “nessuna evidenza”. Non mi ricordo neanche cosa ho fatto. Forse ho urlato. Non lo so. Comunque, in realtà non era finita del tutto: dovevo fare la radioterapia. Ma quella non si sente fisicamente. Ti stanca un po’, ma non è come la chemio. Dura due minuti, e ricordo che, appena ho finito – era inizio luglio – dopo un mese sono partita per il Galles”.
E quindi lì è esplosa Greta Supertramp.
“Sì… boh, non lo so. Ma il bello è che, ripensandoci ora razionalmente, non l’avrei dovuto fare. Sono partita con le difese immunitarie a zero, ok? Ma io non ci volevo pensare.
Dormivo negli ostelli, insieme ad altre persone, quando anche una minima infezione poteva diventare pericolosa davvero. Ma proprio non ci pensavo. Adesso, se ci ripenso, mi dico: “Ma che cavolo ho fatto?” Probabilmente ero un po’ fuori… ho preso, e sono partita”.
Da una parte che bello, visto che è andato tutto bene. È proprio un segno di vita, no? Qualcuno che rinasce e a quel punto dice: “Beh, ce l’ho fatta. Ora non mi pongo limiti”. Il limite non esiste. Un po’ come Christopher McCandless, che prende il nome di Alexander Supertramp quando decide di tagliare i ponti con tutto e parte per una vita nomade. Il suo viaggio solitario in Alaska…
“È il mio sogno. È proprio il mio sogno andare lì”.
Lo immaginavo… anche il tuo “Supertramp” viene da lì, no? Conosco quella zona, sono stato sul Denali. Posti spettacolari, complicati, distanti… ma che meritano. Magari ci torno passando dal Canada, sulla Top of the World Highway. Capisco bene il tuo sogno. Ma torniamo a te. Dopo la rinascita, come hai continuato con i tuoi viaggi? Raccontami un po’: quali sono stati i viaggi successivi?
“Allora… sono andata in Galles, e mi ricordo che sono partita senza sapere come avrebbe reagito il mio fisico. La moto era nuova, perché l’avevo presa e poi mi ero ammalata: quando ci sono risalita, aveva ancora solo 1000 km. Era diversa dalla sportiva, ma quello non era il problema. Il problema era che non sapevo se sarei riuscita a fare 600 km in una giornata. Non sapevo dove mi avrebbe portata la mia forza fisica. Era come ripartire da zero. Ogni giorno era una prova. Non sapevo se il mio corpo avrebbe tenuto, se ce la facevo davvero. Era come fare il mio primo viaggio, con tutto il carico della paura – e della speranza. Avevo comunque paura, anche perché ero da sola. Mia mamma mi scriveva tutti i giorni per sapere come stavo… A volte mi infilavo in mezzo al niente, come piace a me, ma avevo sempre quella paura lì: di farmi male, che succedesse qualcosa. Più che altro, avevo paura che il mio corpo non ce la facesse, anche solo a camminare. Pensavo: “Oddio, se mi faccio male a un muscolo, se mi blocco…” Perché ero un budino, davvero. Ma alla fine non è successo niente. Poi sono andata in Sardegna – non c’ero mai stata – e poi sono dovuta tornare a lavorare. Quello è stato un po’ un trauma”.

Non perdetevi giovedì prossimo la seconda parte.
“Queste interviste, e quelle che seguiranno, sostengono i progetti solidali di ‘Karma on the Road’ – un impegno a lungo termine – realizzato con il supporto di SienaPost e Moto Travel Summit, per diffondere storie di solidarietà e passione motociclistica.”

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(1 – continua)