Aneddoti, incontri che sfidano i pregiudizi e riflessioni sul senso profondo del viaggiare
La scorsa settimana vi abbiamo fatto conoscere Emilio Radice, un giornalista e viaggiatore che, in sella alla sua moto, ha raccontato il mondo con una prospettiva unica. Vi abbiamo parlato delle sue radici toscane, dei suoi primi viaggi e di come la moto sia stata una compagna di lavoro e di riflessione, diventando parte integrante del suo modo di osservare e vivere la realtà.
In questa seconda parte, ci immergeremo ancora di più nelle sue avventure, nei paesi che ha attraversato e nei legami umani che ha costruito lungo la strada. Attraverso aneddoti ricchi di significato, incontri che sfidano i pregiudizi e riflessioni sul senso profondo del viaggiare, Emilio ci mostrerà come ogni percorso possa diventare un’esperienza di scoperta di sé e dell’altro, capace di lasciare un segno indelebile nel cuore e nella mente.
Luoghi che lasciano il segno
Tra i tanti paesi che hai attraversato, dalla Turchia all’Iran fino all’Afghanistan, c’è un episodio o un luogo che ti ha segnato più di altri? Qualcosa che ancora oggi ricordi con una particolare emozione?
“Ce ne sono parecchi, davvero. Il mio modo di viaggiare è sempre stato legato alla storia e alla geografia. Ho spesso discusso con insegnanti su questo tema, dicendo loro: ‘Insegnate la storia e la geografia come se fossero separate, ma in realtà dovrebbero fondersi, perché la prima è sempre condizionata dalla seconda’. Mi piace molto viaggiare verso il Medio Oriente, e oltre anche, perché, se uno tiene davanti a sé una carta geografica, si accorge che i percorsi di oggi al dunque sono gli stessi dei nostri avi. Quando percorri certe strade incontri gli stessi ostacoli fisici che incontrarono Alessandro Magno, Giulio Cesare o Marco Polo: le stesse montagne, gli stessi fiumi, gli stessi deserti. E sulle tracce dei secoli noi ancora oggi aggiungiamo le nostre. Questo è stato il mio filo: sono partito dalla Grecia, il mio primo Oriente, e sono arrivato fino all’Afghanistan e al Centro Asia. È stato un percorso graduale, un viaggio che si trasformava passo dopo passo, senza rotture. Non è come prendere un aereo e ritrovarsi di colpo in una realtà completamente diversa. Ad ogni chilometro ho aggiunto qualcosa alla mia ‘comfort zone’, spazi, luoghi, conoscenze. Ed è bellissimo oggi avere un fratello a Gorele, un altro ad Alamut, una sorella a Shushtar, uno a Kunduz… E mi aspettano tutti!“
“Tra i tanti episodi, voglio raccontarti uno forse meno romantico ma molto significativo. Ero a Kashan, in Iran, in un hotel vicino al bazar (scelgo sempre posti inseriti nel tessuto urbano) e mentre passeggiavo la sera un uomo mi fermò e mi disse: ‘Sono un insegnante di inglese del liceo locale. Verrebbe domani nella nostra scuola a parlare del suo Paese?’ Era il periodo di Ahmadinejad, un Iran molto chiuso, con già Ali Khamenei al potere. Rimasi colpito dalla richiesta e risposi che non viaggiavo da solo, ma con la mia compagna. Lui replicò: ‘Può venire anche lei’. Così, il giorno dopo, ci trovammo nell’aula magna del liceo, davanti a un uditorio misto di ragazzi e ragazze iraniane”.
“Quella giornata fu incredibile: incrociammo i nostri pregiudizi, quelli che noi avevamo su di loro e quelli che loro avevano su di noi. Eravamo pieni di errori reciproci, che però venivano analizzati, discussi e filtrati dal confronto diretto. È stata un’esperienza potente, che mi ha fatto riflettere molto. Tra i tanti momenti, ricordo una ragazza che si alzò durante la discussione. Le chiesi: ‘Cosa farai dopo il liceo?’ E lei rispose: ‘Studi religiosi’. Incuriosito, le domandai perché. Mi spiegò che voleva lavorare nei consultori familiari per insegnare alle donne la contraccezione e le pratiche di procreazione responsabile, in armonia con i valori dell’Islam. Parlava apertamente, davanti a tutti, di un tema come il sesso, e questo mi colpì profondamente. Pensai: ‘Non sono poi così chiusi, se possono discutere di queste cose pubblicamente, in una scuola’. È stata una vera lezione”.
“E mi venne da pensare se in Italia sarebbe potuto accadere. Mi chiesi quale putiferio sarebbe scoppiato se un nostro insegnante avesse invitato uno straniero musulmano o di un’altra religione a parlare ai suoi alunni. Domanda valida anche oggi: probabilmente ci sarebbero interrogazioni parlamentari, polemiche mediatiche, il preside che si dissocia, il Ministero che invia ispettori, i social scatenati… Ma in Iran, è successo davvero, io l’ho vissuto. Ed è stato un insegnamento profondo, non solo per il contenuto del confronto, ma per il significato di quell’iniziativa. Ho vissuto qualcosa che, da noi, non è immaginabile e che nessuno, per pregiudizio, ritiene che possa accadere in Iran”.
Oltre le barriere culturali e linguistiche
Nei tuoi viaggi, ti sei trovato ad affrontare barriere linguistiche o culturali. Come riesci a stabilire quel contatto umano che per te è così importante? È una questione di atteggiamento, di apertura, o c’è qualcosa che fai per avvicinarti alle persone?
“Questo è il cuore del viaggio. Io non ho mai fatto viaggi organizzati, non ho mai avuto mediazioni di tour operator o guide. Vado assolutamente allo sbaraglio. E devo dire che viaggiare in motocicletta, soprattutto in certi mondi come l’Iran, l’Afghanistan, il Kazakistan o tutta l’Asia centrale, ha un valore particolare. Lì, andare in moto è visto ancora un po’ come si vedeva in Italia ai tempi della prima motorizzazione: non vai in macchina, vai in moto perché probabilmente non puoi permetterti l’auto. Quindi, quando arrivi in motocicletta, sei percepito come una persona semplice, e la gente ti viene incontro per aiutarti”.
“In moto, inoltre, non sei mai anonimo. Noi motociclisti lo sappiamo bene: c’è una certa dose di istrionismo nel nostro andare. Arrivi ‘a cavallo della moto’, ed è una presenza che attira l’attenzione. Sei visibile, umano. Poi il contatto nasce naturalmente, perché chiedo informazioni e aiuto. Ho bisogno di un posto dove dormire, di qualcosa da mangiare, e mi rivolgo direttamente alle persone. È così che si crea una connessione: parli con la gente, ci si intende, e scopri che alla fine siamo tutti simili. Tutti hanno le stesse preoccupazioni: i figli, l’economia, il futuro. Tutti vogliono che i loro figli domani stiano meglio di loro oggi”.
“Qui nasce davvero il legame. Io dico sempre di portare sempre con sé immagini della propria famiglia: figli, nipoti, parenti. E se non ne hai, prendili in prestito da un amico! Mettere in comune le foto dei bambini, delle famiglie, crea un senso di fratellanza immediato. Loro ti mostrano i loro, tu mostri i tuoi, e si comincia a parlare di cose comuni, dei problemi che condividiamo ovunque nel mondo. Da lì si può arrivare persino a temi scottanti, come la politica”.
“Una volta vicino ad Aligudarzm mi ospitò a casa sua un uomo che asfaltava le strade. Era Ramadan e io mi ero messo con discrezione a mangiare un panino in un angolo della strada. Lui mi vide e pretese di ospitarmi. La moglie si mise a cucinare per me. Non parlavano inglese e non c’erano ancora i traduttori sul telefono, ma l’uomo a un certo punto volle fortemente comunicarmi come la pensava: rimediò due fotografie, una di Khomeini e una di Khamenei, poi si mise la prima sul cuore, con un gesto di rispetto, e sputò su quella di Khamenei per farmi capire il suo disprezzo. Il suo pensiero politico fu chiarissimo, ma non mi aspettavo una tale confidenza da parte di un iraniano. Ecco perché viaggiare così è importante. Noi tendiamo a pensare che in quei luoghi le persone vivano come ci viene detto, con enfasi politica, da radio e tv. E non sappiamo nulla di quanto vogliono dialogare, esprimersi, con lo stesso desiderio di confronto che abbiamo noi”.
Il viaggio come scoperta continua
A proposito di questo, prima lo hai accennato: in molti oggi vedono il viaggio come una collezione di mete o esperienze. Tu come vedi il viaggio, soprattutto in moto, e come lo organizzi?
“Per me il viaggio è prima di tutto un appuntamento con me stesso. Devo dirlo chiaramente: il viaggio mi deve provocare, mi deve sollecitare. Lo aspetto perché so che, ogni volta che viaggio, ricevo qualcosa. Ricevo una serie di nutrimenti psicologici, culturali e umani che mi fanno vivere davvero. Mi fanno ridere, mi entusiasmano, a volte mi intristiscono, ma comunque mi scuotono. È questo che rende ogni viaggio un appuntamento bellissimo”.
“Per quanto riguarda l’organizzazione, sono minimalista. Con il tempo ho imparato a ridurre tutto all’essenziale. Ci sono cose obbligatorie, ovviamente: se vuoi andare in Iran, ad esempio, ti serve il Carnet de Passage, il passaporto aggiornato, la patente internazionale – anche se non te la chiedono mai, è meglio averla. Un minimo di preparazione logistica è necessaria, ma non vado oltre. Non porto mai troppe cose. C’è chi porta fornelli, caffettiere, posate… Io no. Mangio quello che trovo, lì dove mi trovo. Mi adeguo non solo ai cibi, ma anche agli orari e alle abitudini locali. Se in Turchia, per esempio, la colazione è a base di zuppa di trippa – e sì, è un po’ inconsueto per noi – io mangio la zuppa di trippa. Non cerco di adattare il mondo a me, mi adeguo al mondo che incontro”.
“L’ho già detto, per me il viaggio è un esercizio di allargamento della mia comfort zone. Vivere una realtà che non è la mia, accettarla e immergermi in essa, mi arricchisce. Non è un caso che certe abitudini e tradizioni siano nate in quei luoghi: fanno parte di quel contesto, e viverle ti permette di essere davvero lì, nel cuore di quella realtà. Questo è il mio modo di viaggiare”.
Affrontare momenti critici
Ci saranno stati nei tuoi viaggi momenti critici. C’è stato un momento in cui hai pensato di aver osato troppo, magari per una difficoltà fisica o per una situazione pericolosa? Come hai trovato la forza per andare avanti? In queste situazioni, cosa ti spinge a continuare, nonostante la fatica o i dubbi?
“Guai ne ho avuti, questo è certo. Però, devo dire, non sono mai arrivato all’irreparabile, almeno per ora. Al riparabile, però, sì. E a volte anche questi momenti diventano esperienze incredibili. Ricordo, per esempio, quando il cardano posteriore del mio BMW si è ruppe nel bel mezzo della Valle di Alamut, in Iran. Un bel guaio. Eppure, proprio da quello è nata un’amicizia che dura ancora oggi. Durante il mio ultimo viaggio, qualche mese fa, sono tornato apposta a trovare il meccanico che mi aiutò allora: Mohamed. Lui vive in un piccolo villaggio e di mestiere ripara biciclette e motorini, non certo BMW. Ma quel giorno, senza esitare, mise tutto il suo tempo e la sua officina a disposizione per aiutarmi”.
“Mandò ragazzini in giro per recuperare cuscinetti a sfera e latte di olio Sae 90 che non aveva. Si dedicò a me per tutto il giorno, dalle 10 di mattina fino alle 6 di sera. Alla fine, non volle una lira. E insistette per offrirmi la cena, perché… ‘Because now you are my friend!’. E io mi commossi. Quella disponibilità, quel senso di amicizia incondizionata, mi colpirono il cuore. Ero l’occidentale, quello che, teoricamente, aveva i soldi. Eppure, lì, in quel villaggio povero tra le montagne, trovai un abbraccio umano da sogno”.
“Quando sono tornato a trovarlo, anni dopo, è stato come se il tempo non fosse passato. Ha chiuso immediatamente l’officina e mi ha portato a casa sua per mangiare insieme. Io insistevo che volevo donargli qualcosa, ringraziarlo in qualche modo, ma ancora una volta era lui a voler dare, non a ricevere. È un legame che va al di là del semplice incontro: abbiamo fatto una promessa di rivederci e di percorrere un pezzo di strada insieme. Alla fine, situazioni del genere mi insegnano che i guai, se sono riparabili, diventano opportunità. Opportunità di incontro, di amicizia, di scoprire l’umanità nelle persone. Ecco, forse è questo che mi spinge a continuare: sapere che anche nei momenti difficili c’è qualcosa di prezioso che il viaggio può darti”.
Un consiglio per chi sogna di partire
Cosa consiglieresti a chi sogna di partire in moto, ma non ha ancora trovato il coraggio per farlo?
“Consiglierei di sdrammatizzare il viaggio. Alla fine, un viaggio lungo, come andare a Samarcanda – dove sono stato per i miei 70 anni – non è altro che una somma di tanti piccoli tragitti, come un Roma-Firenze fatto tante volte. È importante vederlo in questi termini: pezzo dopo pezzo, passo dopo passo. Oggi le strade ci sono, e uno può scegliere quelle più o meno difficili in base alle proprie capacità. Non c’è niente di drammatico, niente di impossibile. Anziché pensare al viaggio come qualcosa di enorme e inarrivabile, lo si immagini come una serie di piccole tappe: siamo arrivati a Firenze e allora andiamo a Venezia, poi oltre, poi ancora più in là. Lungo il percorso troverai sempre persone disposte ad aiutarti, luoghi dove dormire, qualcosa da mangiare. Non è così complicato come sembra”.
“Il viaggio, però, inizia nella nostra mente, ed è lì che dobbiamo abbattere le paure. Spesso ci diciamo: ‘Non ho tempo’, ma è una scusa. In realtà, nel viaggio il tempo si dilata: in una settimana puoi fare percorsi e vedere luoghi che nemmeno immaginavi. Basta cominciare. Per esempio, so che se volessi tornare a Teheran – e ci sono già stato più di una volta – oggi è lunedì, e domenica prossima potrei essere lì senza forzare troppo. È davvero questione di prendere la decisione e partire”.
“Un altro aspetto importante è il mezzo. Non serve una moto speciale per fare un viaggio. La motocicletta che usi tutti i giorni va benissimo, purché sia in ordine e pronta a fare il suo lavoro. Non bisogna cercare scuse legate all’equipaggiamento: basta avere un mezzo affidabile e il coraggio di mettersi in strada. Tutto il resto si scopre strada facendo”.
Una storia che racchiude l’essenza del viaggio
Per concludere, ti chiederei un regalo: una storia che rappresenti il cuore dei tuoi viaggi in moto. Un momento, un incontro, un luogo che per te racchiuda l’essenza del viaggiare su due ruote, per una prossima puntata su Siena Post…
“So già che, alla fine di questa intervista, ti avrò raccontato lo 0,1% di quello che vorrei dirti. Ci sono migliaia di storie e di esperienze che potrei condividere. Ma conoscendoti, voglio raccontarti qualcosa che penso possa piacerti: una scoperta che ho fatto viaggiando”.
“È la scoperta della parola, della magia della parola. Oggi tutti partono con droni, action cam e foto a 360 gradi, ma io credo che nulla sia paragonabile alla forza delle parole. Una volta, vicino al Lago di Urmia, mi sono fermato proprio per scrivere di questo. Per ringraziare tutti gli infiniti ‘noi’ che, nel corso della storia, hanno creato le parole per esprimere ciò che oggi raccontiamo con immagini. Quando non c’erano foto o video, dovevi descrivere un blu, un mare, un orizzonte con le parole, e questa era un’arte che ti arricchiva. Portare agli altri lo stupore, il non detto, il silenzio attraverso le parole: è una scoperta che il viaggio mi ha regalato e che considero essenziale”.
“E poi, ovviamente, ci sono le storie. Te ne racconto una davvero insolita. A Şanlıurfa, in Turchia, una città sacra considerata la casa di Abramo, c’è una grotta legata alla figura di Giobbe. Secondo la tradizione biblica – ma anche islamica – Giobbe visse in quella grotta per sette anni, dopo che Dio accettò la sfida di Satana: privarlo di tutto per vedere se avrebbe continuato a credere. Gli tolsero tutto, ma Dio creò una fonte d’acqua per dissetarlo. La fonte c’è ancora e io lì riempii una bottiglia e la portai in Italia. Le prime a chiedermene un po’ furono le mie amiche buddiste, tutte un po’ mistiche. Ma, per una strana concatenazione di eventi, quell’acqua arrivò in mano a qualcuno di completamente diverso. Ai tempi facevo ancora il giornalista e avevo avuto contatti con Michelangelo Misso, figlio di un capo clan della camorra napoletana. Il padre, un boss temuto, era ricoverato in ospedale, malato di cancro. Come spesso accade, questi uomini di potere, pur con vite piene di crimini, sono incredibilmente religiosi. Michelangelo mi chiese se poteva avere un po’ di quell’acqua per portarla al padre morente, come conforto”.
“E così l’acqua di Giobbe, presa in una grotta vicina al confine siriano, finì in un ospedale di Napoli, per un uomo che stava affrontando i suoi ultimi giorni. Questa storia mi ha fatto molto pensare. Il viaggio, se vissuto in un certo modo, va oltre ogni aspettativa. Apre porte e portoni che non avresti mai immaginato. È questo, per me, il vero cuore del viaggio: qualcosa che unisce mondi e vite lontanissime, trovando un senso anche nelle connessioni più inaspettate”.
Un messaggio per chi legge
Prima di salutarci, vorrei chiederti una riflessione finale. I tuoi viaggi e racconti hanno ispirato molte persone. Qual è il messaggio che speri rimanga a chi leggerà o ascolterà questa intervista?
“Viaggiare è bello, ma soprattutto può essere utile. Quando portai i miei figli al Louvre, davanti alla Gioconda, dissi loro: ‘Voltatele le spalle e poi improvvisamente giratevi, prima che si ricomponga. Così potrete coglierne un’immagine viva, altrimenti lei si nasconde, enigmatica, immobile. Comprendetela d’improvviso, d’istinto”. Penso che il viaggio sia proprio così: se lo sorprendi, e te ne fai sorprendere, ti permette di cogliere l’essenza della realtà e, soprattutto, di te stesso. Viaggiando impari a vedere il mondo con i tuoi occhi, oltre i pregiudizi, oltre ciò che credi di sapere. Scopri che la realtà a volte smentisce le tue convinzioni, altre volte le conferma, ma sempre ti arricchisce. L’incontro tra le persone, l’uomo con l’uomo, va al di là di tutto”.
“Due anni fa mi trovai a Kunduz, in Afghanistan, a parlare con un talebano. Mi chiese: ‘A quale religione appartieni?’ Risposi: ‘Sono cristiano, ma non tutti i cristiani sono brave persone’. Lui replicò: ‘Io sono musulmano, ma non tutti i musulmani sono brave persone’. Così rilanciai: ‘L’importante è che ci siano delle brave persone’. E lui disse: ‘Le persone sono al centro di tutto’. Mi colpì profondamente. Era arrivato, in modo sorprendente, a una radice di pensiero umanista. Partendo da lì, potevamo discutere di tutto: delle donne, delle relazioni familiari, della società. Se l’uomo è il centro, come disse lui, allora hai la chiave per comprendere e dialogare. Se posso dare un consiglio, direi: andate. Viaggiate. Ognuno troverà qualcosa di diverso, ma soprattutto troverà quello che non immagina. E questo aiuta anche a leggere meglio la realtà di ogni giorno quando si è a casa”.
Emilio grazie, anzi non so davvero come ringraziarti. Sei stato fantastico. Spero che questa intervista possa suscitare curiosità, ispirare chi viaggia a farlo con occhi diversi, con il cuore aperto e meno paure”.
(2 – fine)