Voci, colori, età: Gianni Cuperlo saluta il popolo del 25 aprile sotto la grandinata di Brescia
Dal suo profilo fb il discorso pronunciato da Gianni Cuperlo…
Carissima Sindaca, Autorità, rappresentanti delle Associazioni partigiane, care cittadine e cittadini di Brescia, ogni Paese possiede un calendario civile. È fatto di date scolpite nell’identità di una nazione, una città, una generazione. A Bologna quel calendario ricorda il 2 agosto di 45 anni fa quando una bomba fascista distrusse l’ala sinistra della stazione lasciando a terra 85 corpi.
Per tutti voi, per questa città, la data scolpita è il 28 maggio del 1974: qui, in questa piazza dove un’altra bomba fascista spense la vita di 5 insegnanti, due operai, un ex partigiano.
Il 25 Aprile – il giorno della Liberazione dal nazi-fascismo – di quel calendario civile è la data che più di ogni altra unisce tutto il Paese nella memoria e nel senso di sé. Lo è per il prezzo pagato da chi quella vittoria ha reso possibile. Donne, uomini, ragazze, ragazzi spesso giovanissimi, protagonisti di una lotta senza la quale la Repubblica e la Costituzione non sarebbero mai nate.

Le date, quindi. Alcune, hanno la forza di restituire il senso profondo della storia.
A me che sono nato e cresciuto sul confine più tragico e lacerato del nostro paese – quello orientale – questo insegnamento è venuto da una cerimonia che tutti gli anni, il 25 aprile, riunisce, a Trieste, migliaia di persone nella Risiera di San Sabba, nell’unico campo di sterminio nazista sul territorio italiano. A fine aprile del ’45, i tedeschi fuggendo fecero esplodere il forno crematorio nel tentativo di cancellare ogni traccia di quella atrocità. Oggi al suo posto c’è una larga pedana d’acciaio.
Lì, intorno a questo rettangolo, a ogni anniversario si affacciano le autorità civili e quelle religiose. Cattoliche, ebraiche, ortodosse, valdesi. Penso di avere assistito decine di volte agli stessi riti e gesti: le corone, i discorsi, i segni della deportazione, le decorazioni delle associazioni partigiane. Col tempo, su quel piazzale sono arrivati sempre meno testimoni diretti, ma è cresciuto il numero dei giovani. Di chi è nato anni o decenni dopo la fine della guerra.
Ecco, quei ragazzi sono il segno di ciò che la memoria può fare. In fondo la guerra – quella tragedia che si è consumata nel cuore dell’Europa – l’hanno conosciuta sui libri di scuola. O nelle immagini in bianco e nero dei filmati dell’epoca. Eppure, sanno: conoscono il valore di questa data.

Lo stesso accade oggi qui, a Brescia, città medaglia d’argento per la lotta partigiana, nell’ottantesimo Anniversario della Liberazione. La Resistenza, e poi la Costituzione, di quella Liberazione furono semina e radici. Incrociarono culture diverse – cattolici, socialisti, comunisti, laici, repubblicani – accomunati da una volontà di emancipazione sociale da conquistare dentro la cornice di nuove istituzioni liberali.
Per chiudere così la pagina più buia del ‘900. In un’Italia piegata dal regime e dalla guerra, quelli furono mesi angoscianti. Il regime era caduto il 25 luglio del ’43 mettendo fine all’incubo di un ventennio. E questo va detto. Va ricordato ai più giovani. Gli va spiegato che non ha fondamento l’idea di un fascismo dal doppio volto. Duro, ma efficiente, nella sua prima stagione e dannato soltanto dopo le leggi razziali del ’38 e l’avventura a fianco della bestia nazista. Non è così. Il fascismo fu una dittatura odiosa e spietata, come lo sono sempre le dittature. Fu la negazione di libertà e diritti. Fu la soppressione di ogni dissenso. Quel dissenso che spinse Giacomo Matteotti ad alzarsi nell’Aula della Camera e pronunciare lo storico discorso che gli costò la vita. Era il 30 maggio del 1924. “Ed ora preparate il mio elogio funebre” commentò con i suoi compagni socialisti. Dieci giorni più tardi lo squadrismo fascista lo assassinò. Il fascismo fu questo: devastazione materiale e lutto.

Tra il 10 giugno del ’40 e l’aprile del ’45 morirono più di quattrocento quarantamila i italiani. Di questi, un terzo erano civili. Centotrentamila furono i dispersi. Alla fine della guerra un italiano su quattro era senza lavoro e milioni quelli in miseria. Nessuno tutto questo ha diritto di rimuoverlo.
Poi venne l’8 settembre, con un’Italia a pezzi. Con la fuga di una intera classe dirigente: dalla Corona ai ministri passando per le burocrazie e i vertici militari. E però ha detto bene anni fa il presidente Ciampi: quella non fu “la morte della Patria”. L’8 settembre fu la dissoluzione dello Stato – questo sì – ma per milioni di italiani – di giovani, donne, lavoratori, per una parte delle forze armate – quello fu anche il momento fondante della “scelta”. La decisione, calata all’improvviso sulle spalle dei singoli – spesso giovanissimi – fu se affidarsi alla vecchia autorità oppure puntare su un ordine mutato. E per molti, in quel passaggio drammatico, la scelta divenne inevitabilmente “una scelta di vita”. Si tradusse in quella “resistenza civile” dalla quale sarebbero nati uno Stato nuovo, la Repubblica, la nostra Costituzione.

Dunque, le date. La loro forza: il 25 luglio, poi l’8 settembre. Vedete, ci sono parole – termini – che nel linguaggio dell’oggi è sempre più difficile utilizzare. Un po’ per pudore – perché sono parole impegnative – ma anche per la difficoltà a farle vivere in un tempo come il nostro dove le parole spesso finiscono consumate dall’uso e dall’abuso.
Uno di questi termini è la parola “onore”. Eppure, è una parola importante nella storia di un paese come il nostro che, per mille ragioni, ha conosciuto tardi la sua unificazione. Leopardi, parlava della mancanza di una società italiana fondata sull’onore. Quella società – scriveva – in cui “ciascuno fa conto degli uomini e desidera farsene stimare”. Cioè, per lui l’onore non era altro che “la stima che gli individui fanno dell’opinione degli altri verso di loro”. Sono parole antiche, ma parlano a noi. Al fondo è l’idea che la dignità, l’onore, di un individuo, di un popolo, di una nazione, siano legati alle scelte che si compiono e all’immagine che di sé si trasmette agli altri: a quanti ci osservano e ci possono giudicare. O ci giudicheranno in futuro. Per i nostri pensieri, le nostre azioni, la nostra coerenza. Non è poco. Anzi, direi che è tutto.

Da questo punto di vista, ho sempre trovato illuminante un ricordo di Primo Levi. Si trova in calce al “Sistema periodico”, uno dei suoi libri meno noti, ma forse più belli. Alla fine di quella raccolta di racconti, c’è un dialogo con Philip Roth, dove Levi, parlando della natura del lavoro racconta di un fenomeno inspiegabile che aveva notato durante la prigionia ad Auschwitz. E lo descrive così: “Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva diritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.” Dignità professionale: è incredibile vero? Un muratore italiano, deportato in un campo di sterminio, persino in faccia ai suoi aguzzini sentiva il dovere di non tradire la sua dignità di persona. Non credo che quel muratore avesse mai letto Leopardi, eppure ne aveva compreso a fondo il valore, che è prima di tutto nel rispetto di sé.
Ecco, mi piace pensare che in quei mesi drammatici della lotta di Liberazione avvenne esattamente questo. Che una nazione trovò dentro di sé le ragioni del suo orgoglio, ma prima di ogni altra cosa ritrovò “l’onore” e la dignità per tentare di liberarsi dal giogo di una dittatura odiosa e dal peso di una guerra devastante. Credo che questo sia stato allora – e sia ancora adesso – il messaggio fondamentale di quella pagina.

La Resistenza, dunque. Guardate, si è dibattuto a lungo sul perché l’Italia non abbia conosciuto una vera rivoluzione. Naturalmente si può discutere se il Risorgimento sia stato per noi l’evento fondativo che fu la “Rivoluzione” per la Francia o la Riforma protestante per la Germania. C’è stato chi, come Benedetto Croce, ha visto nel Risorgimento il compimento dell’unità e una rivoluzione morale e delle coscienze. E chi, invece, come Antonio Gramsci, ha descritto quello stesso Risorgimento come una rivoluzione mancata. Benedetto Croce ha potuto conoscere gli anni della Resistenza antifascista. Gramsci no. Non fece in tempo. Fu arrestato l’8 novembre del ’26 e un anno dopo condannato a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Al processo, il pubblico ministero pronunciò quella frase: “per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Fallirono. Perché Gramsci trovò la forza di compilare quei “Quaderni” dove ricostruì la trama complessa della storia d’Italia offrendo indicazioni sul nostro avvenire. Fallirono, dunque, ma lo finirono: a causa di un organismo fragile Antonio Gramsci morì a Roma nel 1937. Non vide nascere e maturare la stagione della Resistenza. Quella che molti hanno definito “un secondo Risorgimento”.
Era stato Carlo Rosselli a parlare per primo della necessità di un “Risorgimento dal fascismo”: quasi il compimento della lotta avviata decenni prima per l’unità dell’Italia. Ma questa volta, con una coscienza popolare più matura sulle ragioni profonde che volevano restituire all’Italia e agli italiani la libertà, la dignità e la democrazia. Ecco, questo fu la lotta di Liberazione: un sentimento di riscossa, orgoglio e passione. Uno slancio che, soprattutto in alcune realtà, riuscì a travolgere gli argini e formare “un popolo”, mescolando operai, braccianti, artigiani, pezzi della borghesia, dell’intellettualità e delle vecchie classi dirigenti.

Nasceva un’altra Italia e si gettavano le basi per quella rinascita morale e materiale che ci avrebbe consentito, in pochi anni, di ricostruire una nazione spezzata e di restituire al Paese quel ruolo sulla scena del mondo che il fascismo aveva compromesso. Insomma, una rinascita civile e democratica: questo fu. La volontà di immaginare un avvenire di pace, lavoro, benessere per un’Europa precipitata, negli anni precedenti, in un abisso di civiltà.
E così è stato: con un miracolo laico. In fondo, la storia del ‘900 – del secolo che ci siamo lasciati alle spalle – è emblematica. Dall’agosto del 1914, quando a Sarajevo il nazionalismo serbo infiamma il continente, al maggio del ‘45, da Madrid al Volga, dal Nord Europa alla Sicilia, si calcola che 100 milioni di esseri umani siano stati sterminati da guerre, carestie, deportazioni. E l’Europa è diventata il teatro di una inedita bestialità. Ma è proprio quella storia tragica che ha reso possibile l’utopia di un’Europa unita, e unita in primo luogo nel nome della sua pacificazione: dell’espulsione della guerra dal suo destino. Questo risultato straordinario nella sostanza è stato conseguito.
Certo, con la tragica ferita dei Balcani, e oggi con la guerra che da due anni insanguina l’Ucraina invasa dalla Russia e che è già costata oltre mezzo milione di morti. Una guerra che l’Europa deve impegnarsi a fermare impedendo che questo assurdo massacro prosegua. Come deve impegnarsi sul piano politico e diplomatico perché l’Europa trovi forza e voce per quel cessate il fuoco a Gaza che non equivale ad assolvere il pogrom del 7 ottobre, ma che deve fermare una strage di uomini, donne, bambini innocenti riconoscendo il diritto ad esistere di uno Stato palestinese. Innocente, dal latino: che non può nuocere. E, però, anche queste tragedie dimostrano che la strada da seguire è avere “più Europa”, più integrazione, più coesione.

In fondo non è un caso se da sempre è difficile definire i confini dell’Europa. Perché in fondo ha ragione chi dice che l’Europa arriva dove arrivano i valori della sua civiltà: la democrazia, le libertà individuali, la giustizia. E poi la laicità e la tolleranza. In questo senso, la sconfitta del nazismo e del fascismo ha aperto definitivamente la strada a un’idea alta, ambiziosa, della convivenza. Ha cambiato la storia di popoli e nazioni, e consentito alle generazioni che sono venute dopo di escludere la guerra dalle nostre vite.
Oggi si tratterebbe di raccogliere l’ultimo appello di quel Papa venuto dalla fine del mondo e che domani il mondo intero saluterà sul Piazzale di San Pietro. Ma se tutto questo è accaduto – ed è l’ultima cosa che voglio dire – noi abbiamo il dovere di continuare a fare due cose. La prima è riconoscere il merito di coloro che questa rivoluzione – questo miracolo laico – hanno reso possibile. E dunque ricordare. Ricordare quella stagione come l’espressione limpida e preziosa del nostro essere cittadini italiani, di questa Repubblica antifascista. Mi è spiaciuto che alcuni esponenti e forze politiche abbiano contestato l’invito rivolto oggi a un deputato della Repubblica a parlare da questo palco. Ma se sono qui con voi, non è per criticare l’azione del governo che guida oggi il Paese. Nulla su ciò ho detto e nulla dirò.

E però, con la stessa sincerità, voglio chiedere a quanti oggi sono al governo dell’Italia – e una mattina sono saliti sul Colle più alto della capitale giurando sulla Costituzione – di riconoscere sempre la radice antifascista della Repubblica. Lo facciano pure con sobrietà, ma lo facciano. L’altra cosa che dobbiamo fare è impegnarci e vigilare affinché le pagine più oscure di quella storia non abbiano più a riaffacciarsi. Vuol dire considerare i valori di quella battaglia per la libertà e la democrazia, come valori che debbono vivere nel tempo e nell’oggi.
Questo se crediamo che la civiltà e l’umanesimo nel quale ci siamo formati siano la sola via di una crescita e di una convivenza felici. Qui – su questo piano – contano molto le parole e le azioni di una classe dirigente. E conta molto la politica, nella sua accezione migliore. Il coraggio di dire e fare le cose giuste. Oltre la convenienza che può derivarne. L’idea della giustizia che nasce dall’avere un lavoro e un reddito sicuri, a essere curati sempre e non solo se disponi di una carta di credito. Noi siamo stati fortunati. Perché abbiamo ereditato un’Europa di pace e un’Italia libera e democratica. Ma proprio per questo la nostra responsabilità è quella di consegnare a chi verrà dopo di noi un’Europa e un’Italia più libere e più giuste.

Dobbiamo farlo in un tempo che vede nuovi autoritarismi aggredire una divisione dei poteri, la stessa rappresentanza democratica nelle istituzioni. Con disuguaglianze e ingiustizie profonde, e migliaia di corpi sepolti in fondo al Mediterraneo. Con il potere sfrontato del denaro convinto di poter acquistare ogni cosa: compresa la libertà e dignità degli esseri umani. Questa è la responsabilità di ciascuno in questo tempo faticoso. Speriamo, tutti insieme, di esserne all’altezza.
Nel 1947 Italo Calvino nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, rinuncia a ogni tentazione celebrativa e sceglie di ritrarre partigiani che sono degli irregolari, individui marginali, tutt’altro che contraddistinti da una consapevolezza politica. Sono mossi da un sentimento di rabbia, furia, di “inutile furore” scrive, che non li distingue dagli altri, dai nemici, dei repubblichini in camicia nera. Che cosa invece li distingue? Ne discutono nel corso di una notte che precede la battaglia contro i tedeschi, il comandante di brigata Ferriera, un operaio di fabbrica salito in montagna per combattere, e il commissario politico Kim, studente universitario alla ricerca di spiegazioni meno schematiche. Kim spiega che le radici di entrambi gli schieramenti potrebbero essere anche le stesse (la violenza cieca, la ferocia, l’assenza di pietà). Ma a dividere gli uni dagli altri interviene la storia: la storia che dà un senso giusto, positivo, alla furia degli uni; e ricaccia gli altri nel gorgo distruttivo degli “inutili furori”, che tendono a riprodurre senza fine l’oppressione e la schiavitù.
La traduzione di Calvino? Che dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica.
Insomma, da una parte c’era “il giusto”; dall’altra ciò che giusto non è e non lo sarà mai. Se si dimentica questo, si perde il senso della storia ed è esattamente quello che rischia di accadere nell’Italia di oggi. Impedirlo è il compito morale di tutte e tutti noi. Viva il 25 Aprile.
(Le immagini sono relative a varie celebrazioni in tutta Italia)