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martedì, Maggio 13, 2025

Coltello e telefonino: cosa raccontano i ragazzi che li portano in tasca?

Dall’attrezzo di lavoro alla minaccia urbana; dalla connessione virtuale all’isolamento reale. Due oggetti-simbolo rivelano il disagio di una generazione

Nel suo blog Stefano Bisi ha posto una domanda: “Quello che colpisce di recenti fatti di cronaca, avvenuti anche a Siena sebbene in dimensioni minori rispetto ad altre città, è che giovanissimi si sono fronteggiati con coltelli. Adolescenti o poco più grandi escono di casa con il telefonino e con un coltello infilato nei pantaloni. Perché?”

Tentiamo una risposta come ha fatto poc’anzi Paolo Benini. Partiamo dal coltello, però senza dimenticare il telefonino.

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Il coltello, per secoli, è stato tutt’altro. Nelle mani di contadini, pastori, artigiani, era uno strumento essenziale, naturale, un’estensione del corpo e del mestiere. Serviva a tagliare pane e formaggio, potare, riparare, scuoiare. Ogni regione italiana aveva la sua lama tipica: la roncola emiliana, la pattadese sarda, la resolza abruzzese, i coltelli toscani di Scarperia. Simboli di autonomia e saper fare, di identità locale, tramandati di padre in figlio.

Ma tra Otto e Novecento, col declino della civiltà rurale e l’urbanizzazione crescente, il coltello cambia significato. Non è più solo utensile, diventa arma. Prima per difendersi nei quartieri difficili; poi, sempre più spesso, per minacciare, per imporsi. Dove veniva prima regolato da codici d’onore non scritti, ora entra nel territorio ambiguo della violenza giovanile.

Nelle città italiane, da Milano a Roma, da Napoli a Firenze, cresce il numero di reati legati alle armi da taglio. Gruppi di ragazzi si muovono con coltelli nascosti nelle felpe, nei pantaloni, negli zaini. Li mostrano, li filmano, li usano. Per dominare, per difendersi, o per il solo fatto di “avere qualcosa”. E in tutto questo, accanto alla lama, c’è sempre lui: il telefonino.

È proprio questo binomio — coltello e smartphone — a raccontare in modo più profondo il paradosso di una generazione. Da un lato l’iper-connessione: il bisogno continuo di essere visti, registrati, presenti nel mondo digitale. Dall’altro la violenza o la minaccia di essa: il bisogno altrettanto forte di essere rispettati, temuti, di non sentirsi invisibili o deboli. Il telefonino diventa una finestra per esibirsi; il coltello, un modo per affermarsi nel mondo reale, dove la parola non basta, dove spesso manca chi insegna a gestire il conflitto.

Non è tanto l’oggetto in sé a essere pericoloso, ma la cultura che lo circonda. Dove manca una rete educativa solida, dove l’autorità adulta è assente o screditata, dove i luoghi sicuri sono pochi o chiusi, si affermano gesti estremi. Il coltello non è più l’attrezzo di chi sa fare, ma la scorciatoia di chi non sa dire. Il telefonino, da strumento di connessione, diventa veicolo di isolamento, amplificatore di conflitti, teatro di violenza.

In questa deriva simbolica, Siena non è immune. Anzi, la sensazione di vivere in una realtà che offre poco, che non ascolta, che non crea spazi reali per i giovani, può accentuare il bisogno di colpire o farsi notare. Se un ragazzo non ha luoghi dove confrontarsi, strumenti per raccontarsi, figure adulte credibili a cui riferirsi, la tasca si riempie di ciò che sembra dare potere: un coltello, un telefono. Due finti scudi contro una fragilità reale.

La risposta non può essere solo repressiva. Serve un lavoro profondo sul contesto culturale: ricucire il senso dei gesti, restituire valore agli strumenti e alle parole. Riconoscere che ogni lama ha una storia, ma anche che non tutte le storie devono finire con una ferita. E che la forza non sta nel metallo o nei like, ma nella possibilità di sentirsi parte di qualcosa, senza doverlo dimostrare con la violenza.

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