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lunedì, Giugno 16, 2025

Due sguardi per capire meglio il nostro tempo

Piccini e Benini, due voci, ciascuno a suo modo, che invitano a rallentare e a guardare più a fondo

In questi giorni mi è capitato di leggere due scritti: uno di Pierluigi Piccini sul suo blog personale, dal titolo “Ricominciare a essere umani”, e l’altro di Paolo Benini su SienaPost, intitolato “Io da piccolo tifavo per i cowboy. Da grande ho capito”.

Due testi diversi per stile, per registro, per traiettoria intellettuale, ma sorprendentemente convergenti su alcuni nodi di fondo: la costruzione della realtà, la perdita di autenticità, il bisogno di ripartire da una consapevolezza più profonda e meno eterodiretta.

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Il pezzo di Piccini ha l’andamento di una riflessione morale e civile: un invito a recuperare uno sguardo umano capace di sfuggire all’anestesia della tecnica, della burocrazia, dell’apparato. Scrive che abbiamo smesso di sentire, travolti da un mondo che ci chiede efficienza, reattività, obbedienza a regole impersonali. L’unico modo per “ricominciare a essere umani” è forse quello di imparare di nuovo a vedere, a pensare, a sentire — partendo da un tempo interiore, da relazioni vere, da uno sguardo non mediato. È una meditazione che non indulge nell’accusa, ma propone un orizzonte di risveglio.

Il testo di Benini, invece, parte da un’immagine potente e disarmante nella sua semplicità: “Da piccolo tifavo per i cowboy”. Quella frase racchiude tutto il potere delle narrazioni dominanti, l’ingenuità dell’infanzia, ma anche la necessità — una volta cresciuti — di disinnescare ciò che ci è stato insegnato senza che ce ne accorgessimo. Il cuore del pezzo è una denuncia del modo in cui l’opinione pubblica viene orientata: non attraverso la violenza, ma con la narrazione. Non ci dicono cosa pensare, ma ci mettono nelle condizioni di provare ciò che è utile venga provato. La guerra in Ucraina e quella in Gaza diventano allora casi esemplari di come il dolore collettivo sia spesso suggerito, più che vissuto.

Cosa accomuna i due testi, dunque? Un punto di partenza etico: entrambi invitano a non accontentarsi della superficie. Piccini lo fa chiamando in causa la responsabilità dello sguardo; Benini smontando i meccanismi della narrazione pubblica. Entrambi ci chiedono di domandarci che cosa proviamo davvero e perché lo proviamo. Ci suggeriscono, senza retorica, che la commozione può essere una reazione programmata, che l’indignazione collettiva può essere sceneggiatura. E che forse, se vogliamo restare umani, serve un passo indietro: per ascoltare, per guardare, per sentire senza copione.

Due scritti brevi, ma intensi. Che fanno bene rileggere in controluce. Non solo per ciò che dicono, ma per il gesto che propongono: sospendere il rumore di fondo, e tornare a interrogarci sul nostro sguardo. Prima ancora che sulla realtà, su noi stessi.

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