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mercoledì, Aprile 2, 2025

La città spezzata: quando l’individualismo uccide la comunità

Tra riflessioni personali e lo sguardo profetico di Pasolini. Dal funerale della comunità alla riscoperta del senso collettivo

La nostra città sta morendo, non c’è dubbio. Ma non è un decesso improvviso, è un lento e inesorabile declino, causato dall’egoismo e dalla miopia di chi la abita.

Ognuno si preoccupa del proprio orticello, ignaro del fatto che l’intera città sta andando a rotoli. I negozi di vicinato chiudono? I supermercati non aprono? L’università si svuota? L’ospedale è fuori dalle graduatorie dove primeggiano gli altri toscani? Ma cosa importa?
Finché ciascuno dei nostri piccoli mondi è a modo suo a posto, il resto non conta.

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Tranne quando i conti non tornano più, quando il morto in casa ci tocca. Allora ognuno lancia il proprio grido di allarme. Assistiamo inerti al funerale della nostra città.
Certo si dirà: per la Beko hanno protestato in tanti. Tutti! Ma come “una rondine non fa primavera”, cosi non basta piangere per la Beko. Perché un cuscino su cui piangere è l’altra faccia dell’individuare un nemico a cui dare tutte le responsabilità dei disastri.

Non basta. Non serve. Bisogna affrontare la realtà.

La verità è che una città non si salva con le lacrime individuali, e nemmeno con le accuse corali. La rinascita può avvenire solo attraverso un impegno collettivo, una visione d’insieme che superi gli interessi personali. Smettere di essere spettatori passivi, fustigatori veementi e diventare protagonisti del nostro futuro. Riscoprire il senso di comunità, la solidarietà, la voglia di costruire insieme qualcosa di migliore. Con i compromessi che questo richiede.

Dobbiamo smetterla di piangere sul latte versato e iniziare a costruire una città viva, vibrante, capace di offrire opportunità e speranze a tutti. La città è un organismo complesso, fatto di persone, di storie, di tradizioni. E come un organismo, ha bisogno di tutte le sue parti per funzionare. Se ognuno pensa solo a se stesso, l’intero corpo si ammala.

È ora di svegliarsi, di uscire dal nostro guscio, di guardare oltre il nostro naso. La città ha bisogno di noi, di tutti noi, per rinascere. Chi pensa di arrogarsi il compito di scegliere lui i “veri rinnovatori” sarà nel torto. Siena merita un futuro. Non lasciamola morire.

Dopo aver scritto questo testo, mi sono fermato a riflettere. Dove avevo già incontrato queste sensazioni, questa visione di una città in declino, di una comunità che si sfalda sotto il peso dell’individualismo? La memoria mi ha portato a Pier Paolo Pasolini, alle sue pagine più dure e profetiche: Scritti corsari e Lettere luterane.

Pasolini parlava della “mutazione antropologica” degli italiani, un cambiamento profondo e irreversibile dei valori e dei comportamenti, causato dalla società dei consumi. Denunciava la scomparsa delle borgate e delle culture popolari, la perdita di un’identità comunitaria a favore di un’omologazione spietata, che rendeva le persone isole separate. E cosa accade oggi nelle nostre città, se non esattamente questo?

Nel mio testo ho usato l’immagine del “funerale della città”; Pasolini, con parole diverse, parlava di un “genocidio culturale”, una distruzione di ciò che dava anima ai luoghi. Lui vedeva l’Italia trasformarsi in un “paese senza memoria”, dove l’antico senso di solidarietà veniva sostituito dal mero consumismo. Oggi, le nostre città muoiono perché sono diventate luoghi di passaggio, non più di appartenenza.

Un altro punto di contatto è l’idea di città come spazio non più vissuto, ma consumato. Pasolini parlava delle città che smettevano di essere luoghi di vita per trasformarsi in scenari del consumo. Oggi, il fenomeno si manifesta con la desertificazione dei centri storici, il proliferare di non-luoghi come centri commerciali e outlet, il degrado di spazi che un tempo erano il cuore della socialità. Il legame con il territorio si è affievolito, sostituito da un utilizzo temporaneo e superficiale dello spazio urbano.

Ma c’è una differenza fondamentale tra la mia riflessione e quella di Pasolini. Lui era profondamente pessimista: vedeva la scomparsa della cultura popolare come un processo irreversibile, un destino segnato. Io, invece, voglio credere che ci sia ancora margine per una rinascita. Se l’egoismo ha frammentato la città, allora solo il senso di comunità può ricostruirla. La partecipazione, l’impegno civico, la cura per i beni comuni devono diventare le nuove fondamenta su cui edificare un futuro migliore.

Pasolini ci ha insegnato a guardare la realtà senza illusioni, a denunciare il declino con parole taglienti e immagini forti. Ma oltre alla denuncia, abbiamo il dovere di cercare soluzioni. La città può ancora salvarsi, ma solo se smettiamo di assistere al suo funerale e iniziamo a costruire, insieme, un nuovo futuro.

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