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martedì, Maggio 13, 2025

La ferita aperta di Siena: oltre le assoluzioni, la crisi di Mps come sintomo di fragilità

Il ruolo della Fondazione Monte dei Paschi, le dinamiche politiche locali e l’anima duale di Siena

La lunga e tormentata vicenda del Monte dei Paschi di Siena (MPS) non si è conclusa con le sentenze nelle aule di tribunale. Le assoluzioni di figure di spicco, pur sancendo l’assenza di responsabilità penali per i reati contestati, non hanno posto la parola fine a un dibattito che affonda le radici nel cuore di Siena e si estende all’intero sistema bancario italiano.

Lungi dall’essere un capitolo chiuso, la crisi di MPS rimane ancora una ferita aperta, una pagina da comprendere appieno nelle sue molteplici sfaccettature. Il ruolo della Fondazione MPS, le intricate dinamiche politiche locali fortemente caratterizzate dalla precoce affermazione del Partito Democratico come forza egemone (per la cui costruzione il MPS rappresentò un elemento di coesione fondamentale) e, soprattutto, l’anima duale della città si evidenziano come elementi chiave per decifrare le scelte che hanno condotto al profondo trauma che ne è derivato.

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Siena è una città che ha sempre vissuto in equilibrio tra due tendenze opposte: una forte identità comunitaria, generatrice di un senso di appartenenza profondo, e una storia di scambi e contaminazioni, che l’ha resa capace di dialogare con il mondo esterno. Questa dualità, ha plasmato la storia della città e il suo rapporto con il Monte dei Paschi per secoli.

La prima, ha difeso le proprie tradizioni, dal Palio alle Contrade, custodendo gelosamente un’identità forte e distintiva. La seconda, al contrario, ha visto le tradizioni come un’eredità dinamica, capace di evolvere attraverso il dialogo con l’esterno, permettendo a Siena di mantenere un ruolo culturale di rilievo.

In questo contesto, il Monte dei Paschi di Siena ha rappresentato per secoli una delle principali fonti di sostegno di questa duplice “senesità”. Da un lato, la banca ha sostenuto le Contrade, il Palio e le istituzioni locali, rafforzando il senso di comunità e il legame tra Siena e la sua storia. Ha finanziato il restauro di monumenti, ha garantito risorse per l’Università e ha sostenuto il tessuto economico cittadino, creando una sorta di stabilità protetta e l’illusione di autosufficienza. Dall’altro lato, MPS è stato uno strumento di apertura verso il mondo, attraendo investimenti, mantenendo una posizione di rilievo nel sistema bancario italiano, finanziando iniziative culturali e portando benessere oltre la dimensione locale.

Nell’apertura dinamica verso l’esterno però il Monte dei Paschi aveva sempre adottato un atteggiamento prudenziale, perseguendo un accrescimento qualitativo e quantitativo per incorporazioni e fusioni. I bocconi potevano essere digeriti nel breve periodo senza che la digestione intaccasse patrimonio e liquidità, anche quelli più indigesti. Tutto ciò almeno fino alla Banca 121, che aveva rappresentato la prima acquisizione di dimensioni più ragguardevoli, e non senza pagarne in termini di conseguenze.

Tuttavia, proprio questa profonda integrazione tra l’identità di Siena e il suo Monte ha reso il trauma della crisi ancora più doloroso. La perdita della banca è stata percepita come la perdita di un pilastro non solo economico, ma anche sociale e identitario, scuotendo quell’equilibrio che aveva caratterizzato la città per secoli e lasciando una ferita profonda nel tessuto comunitario. La sensazione di aver perso non solo un’istituzione economica, ma un pezzo fondamentale della propria identità collettiva, ha generato un senso di smarrimento e la necessità di una profonda riflessione sul futuro.

Per comprendere appieno la portata di questa crisi, è necessario tornare a quel momento cruciale del 2007, quando l’ansia di crescita, quasi un imperativo per una banca che si sentiva espressione di un intero territorio, spinse il management di MPS verso operazioni finanziarie rischiose. L’acquisizione di Banca Antonveneta, pagata un prezzo esorbitante e finanziata prevalentemente a debito proprio alla vigilia della tempesta finanziaria globale del 2008, rappresenta l’emblema di una scelta imprenditoriale sbagliata nel momento peggiore.

Dopo aver resistito alle tentazioni di gigantismo degli anni precedenti e nel tentativo maldestro di sottrarsi ad una pressione costante delle Autorità monetarie, della stampa specializzata e non, con l’incoraggiamento delle forze politiche a livello centrale, e con l’illusione che tale operazione avrebbe rappresentato la fine dell’assedio alla anomalia senese, si acquista senza scambiare carta il boccone che non sarà mai digerito.

È cruciale ricordare che la Fondazione MPS, all’epoca principale azionista della banca, giocò un ruolo non secondario. In un contesto, in cui le nomine ai vertici della banca e della Fondazione, erano spesso espressione delle dinamiche politiche locali dominate dal nascente PD, ma non solo.

Va anche ricordato che la Fondazione MPS non è mai stata un attore uniforme e compatto. Nel corso degli anni, al suo interno si sono alternate diverse leadership, visioni strategiche diverse, tensioni, in parte riflesso dei cambiamenti politici locali. Questo non riduce la sua responsabilità, ma ne mostra la complessità interna, spesso ignorata nella narrazione semplificata con il termine “poteri forti”.

È da rimarcare comunque che in tutta la narrazione, la Fondazione esce sempre quasi come una vittima inconsapevole di decisioni prese dalla controllata, anche se all’epoca con il 51% del capitale della Banca la Fondazione aveva tutti i poteri per impedire o approvare qual si voglia operazione.

Torniamo ad Antonveneta. La scelta di finanziare interamente in contanti l’acquisizione, senza prevedere clausole di salvaguardia e confidando in un trend economico positivo di lunga data, si rivelò una decisione imprenditoriale sbagliata nel momento peggiore. Tuttavia, questo è il senno di poi, certo è che allora si viveva un clima di eccessiva fiducia e una scarsa propensione al dibattito critico sulle strategie della banca.

L’orgoglio motivato dalla storia ha talvolta oscurato la necessità di un’analisi lucida e indipendente sui rischi assunti e sulle prospettive future. In questo contesto, se è vero che MPS non era e non lo sarebbe mai stata una “banca rossa” (i comunisti non esistevano più), è innegabile che abbia rappresentato uno dei cementi fondamentali per la realizzazione a livello locale di quella “fusione fredda” che ha portato alla nascita del Partito Democratico, dall’incontro cioè tra le culture politiche del vecchio PCI-PDS-DS e della DC-Margherita. Questa dinamica ha creato un intreccio che ha reso ancora più complessa l’analisi delle responsabilità politiche. Si sono inserite le singole individualità e i loro passaggi politici successivi.

In questo scenario, il ruolo della politica, sia a livello locale che nazionale, appare tutt’altro che marginale e si intreccia in modo inestricabile con la governance e le dinamiche della Fondazione MPS, il cui ruolo viene trascurato in molte ricostruzioni.

Difficile non pensare che la politica, tutta, invece di esercitare una funzione di controllo e stimolare un confronto costruttivo, abbia manifestato spesso un’eccessiva accondiscendenza nei confronti del management. Il nascente PD giocava un ruolo di primo piano, ma non era l’unico.

La preoccupazione di preservare l’immagine e il controllo “locale” sull’Istituto, spesso mediato dalla Fondazione e dalle logiche politiche del territorio, ha prevalso sulla necessità di una governance prudente.

O forse la prudenza che veniva invocata spesso dagli Enti Locali è stata abbandonata perseguendo un piano che si è rivelato sbagliato. Quella stessa prudenza che poi avrebbe spinto gli stessi Enti Locali in occasione delle successive nomine nella Fondazione a consigliare l’abbandono della percentuale del 51% di proprietà a vantaggio di una quota che rendesse la Fondazione azionista di riferimento, nella consapevolezza che i futuri aumenti di capitale avrebbero comportato se interamente sottoscritti un eccessivo depauperamento della Fondazione.

Come emerso anche dalle diverse interpretazioni all’interno della Commissione d’Inchiesta regionale del 2016, il confine tra l’interesse della banca, le dinamiche politiche territoriali e gli interessi della Fondazione è apparso spesso sfumato.

Si discute spesso del peso del sindacato nelle scelte. Quello del sindacato è ruolo acquisito nel tempo, frutto del riconoscimento dell’iniziativa svolta per l’evoluzione positiva nei meccanismi di selezione e progressione all’interno della banca.  In quelle battaglie sindacali, si era cementato un forte spirito di appartenenza che agì a tutela e salvaguardia dell’autonomia del management. Ma da qui a configurare una responsabilità diretta nella gestione ne corre. Anzi, proprio da fonte sindacale si levarono alcune critiche sulle dinamiche di potere.

Specie da dentro il PD si cerca di addossare al Sindacato aziendale le colpe, forse nel tentativo di scaricare le proprie. In realtà il sindacato aziendale ha sempre difeso l’autonomia della banca e questo incidentalmente ha coinciso con la difesa della dirigenza della stessa di fronte a molteplici tentativi anche esterni alla realtà locale di imporre dirigenze provenienti da altre banche.

La crisi MPS ha messo in luce la fragilità dei sistemi di controllo, sia interni che esterni. Meccanismi di vigilanza insufficienti. Probabilmente è riemersa anche una cultura aziendale non sempre orientata alla trasparenza che ha permesso ad operazioni complesse e potenzialmente rischiose di proseguire senza adeguati contrappesi. Con il senno di poi è sconcertante constatare come segnali di allarme non abbiano incontrato una barriera efficace da parte degli organi di controllo preposti, interni ed esterni alla banca.

A questo intreccio va aggiunta una riflessione sul ruolo degli organi di stampa, del mondo accademico e della società civile senese. Spesso mancò la forza – o la volontà – di promuovere un dibattito pubblico autentico e informato sulle scelte strategiche della banca. L’informazione locale non sempre ha esercitato un giornalismo di inchiesta capace di anticipare criticamente i rischi, e anche nell’università, pur vivace e centrale nella vita cittadina, non sempre emersero voci autorevoli disposte a rompere il silenzio.

La teoria del gigantismo nel tentativo di competere con i player europei si scontrava con la realtà che nessuna operazione di fusione tra quelle possibili in ambito domestico sarebbe stata in grado di contrapporsi alle dimensioni qualitative e quantitative delle maggiori banche europee.

Un’intera comunità, forse troppo legata a un’idea mitica della propria banca, faticò a guardare con lucidità ciò che stava accadendo.

In definitiva, la vicenda del Monte dei Paschi di Siena si configura come la crisi di un modello bancario territoriale, profondamente radicato in logiche di prossimità e con una Fondazione che ne rappresentava un perno sia economico che politico, in un contesto in cui la politica si voleva fregiare dei complessi risvolti di contiguità.

Una banca che ha faticato a competere nel contesto di un’economia globalizzata e sempre più finanziarizzata. La crescente complessità degli strumenti finanziari, la necessità di capitali ingenti e la pressione della concorrenza internazionale hanno messo a dura prova la struttura e la governance di un istituto che, pur forte di una storia secolare, non è riuscito ad adattarsi con la necessaria rapidità e lungimiranza alle nuove dinamiche del mercato.

O forse è più corretto dire che una Banca, la cui governance tecnica e politica, non ha saputo contrapporsi alle pressioni? Al bisogno di accrescimento che in realtà non era altro che un mezzo per risolvere l’anomalia di una Fondazione – detentrice della maggioranza assoluta della proprietà della controllata – che consegnava agli Enti Locali non tanto e non solo il potere di nomina ma anche e soprattutto la facoltà di decidere sulle risorse che fino ad allora aveva generato la politica prudenziale della controllata.

Crisi simili hanno interessato anche altre realtà bancarie territoriali, come Carige o le Popolari venete, segno che il modello stesso era entrato in una fase di fragilità strutturale. Ma mentre altrove la componente speculativa era più esplicita, a Siena il peso identitario e politico dell’istituto rendeva ogni scelta più ambigua e più difficile da contrastare.

Come evidenziato anche dalle diverse interpretazioni all’interno della Commissione d’Inchiesta regionale del 2016, che ha visto contrapporsi due diverse visioni sulle cause primarie della crisi (fattori esterni verso responsabilità politiche locali), la vicenda MPS è tutt’altro che monolitica.

Le assoluzioni in sede penale, se da un lato pongono fine a un lungo e doloroso capitolo giudiziario, dall’altro non esauriscono il dibattito politico. Lungi dal chiuderlo, il dibattito, rappresentano forse un’opportunità per una riflessione più matura e meno ideologica sulle responsabilità collettive e sulle lezioni da trarre.

È fondamentale che questa analisi prosegua, superando le semplificazioni e tenendo conto della complessità di tutti gli elementi emersi nel corso di questa vicenda.

La ferita di Siena potrà cicatrizzarsi solo attraverso una riflessione collettiva e onesta sulle responsabilità, non solo individuali, ma di un intero sistema.

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