L’ex sindaco analizza passato e presente della città, tra scelte politiche, memoria collettiva e prospettive future: “Serve coraggio per cambiare davvero”
Nel tuo ultimo editoriale, parli di una celebrazione che ha il “sapore dolciastro della retorica e il retrogusto amaro di una memoria selettiva”. Potresti spiegare cosa intendi con questa espressione?
“Con quell’espressione intendo criticare un tipo di celebrazione pubblica che indulge in toni enfatici, autocelebrativi e rassicuranti, mentre evita volutamente di confrontarsi con le zone d’ombra del proprio passato. È dolciastro perché cerca il consenso attraverso formule retoriche accomodanti, ed è amaro perché omette volutamente gli errori, le responsabilità e le conseguenze che certe scelte hanno avuto sul territorio. Una memoria selettiva, infatti, è una memoria che dimentica ciò che non conviene ricordare”.
Sottolinei che la Fondazione ha avuto un ruolo centrale nella crisi che ha colpito il territorio. In che modo ritieni che abbia contribuito a questa crisi?
“La Fondazione ha avuto un ruolo decisivo nella crisi per via del legame strutturale con il Monte dei Paschi, da cui dipendeva quasi interamente. Ha sostenuto, legittimato e spesso promosso strategie espansive e speculative della banca, che si sono poi rivelate disastrose. Non ha saputo esercitare una funzione di vigilanza autonoma, né ha favorito una cultura del rischio responsabile. Inoltre, ha contribuito a creare una dipendenza economica e culturale del territorio dal sistema bancario, frenando lo sviluppo di alternative”.
Parli di una trasformazione della Fondazione in “soggetto erogativo privo di strategia”. Quali sono, secondo te, le conseguenze di questa trasformazione per la comunità locale?
“Una Fondazione che si limita a distribuire fondi senza una visione strategica di lungo periodo diventa irrilevante come motore di sviluppo. Si accontenta di finanziare progetti frammentati e spesso autoreferenziali, senza incidere realmente sui nodi strutturali del territorio: lavoro, formazione, servizi, cultura. Questo favorisce la sopravvivenza di micro-interessi, ma non produce cambiamento. Si disperdono risorse che potrebbero invece contribuire a costruire modelli di sviluppo più sostenibili e inclusivi”.
Hai menzionato termini come “capitale umano”, “coprogettazione” e “inclusione” come parole giuste ma potenzialmente vuote. Cosa dovrebbe fare la Fondazione per dare sostanza a questi concetti?
“Per dare sostanza a queste parole, la Fondazione deve passare dalla retorica ai fatti. Capitale umano significa investire davvero nelle competenze e nelle aspirazioni delle persone, soprattutto giovani. Coprogettazione richiede ascolto, coinvolgimento reale di enti del terzo settore, imprese, università, cittadini. Inclusione non è solo un principio, ma una pratica: implica risorse, accessibilità, giustizia sociale. Serve una regia intelligente, capace di sostenere percorsi condivisi e non solo progetti già confezionati.
Affermi che “non c’è sviluppo senza verità, non c’è coesione senza giustizia, non c’è futuro senza memoria”. Come dovrebbe la Fondazione affrontare il proprio passato per contribuire a un futuro migliore per la città?
“La Fondazione dovrebbe aprirsi a un processo pubblico di riflessione e assunzione di responsabilità. Non si tratta di un atto punitivo, ma di un atto rigenerativo: riconoscere errori e omissioni, analizzare le dinamiche che hanno portato alla crisi, e farne oggetto di studio, confronto, apprendimento. Potrebbe promuovere una ricerca indipendente, coinvolgere le università, aprire archivi. Solo facendo verità sul passato si può costruire un futuro che sia realmente condiviso e credibile”.
Parli della necessità di un “nuovo patto civico”. Quali attori dovrebbero essere coinvolti in questo patto e quali obiettivi dovrebbe perseguire?
“Un nuovo patto civico dovrebbe coinvolgere la Fondazione, il Comune, l’Università, le scuole, le imprese, il terzo settore, i sindacati, le nuove generazioni. Non si tratta di una concertazione burocratica, ma di una visione comune. Gli obiettivi: contrastare la povertà educativa e lavorativa, promuovere innovazione e sostenibilità, rigenerare il tessuto urbano e sociale, valorizzare i beni comuni. Serve un’alleanza ampia, che non si limiti a gestire l’esistente, ma immagini un futuro diverso”.
Sostieni che la Fondazione può ancora avere un ruolo se rompe con l’autocompiacimento. Quali passi concreti dovrebbe intraprendere per rinnovare la propria missione e riconquistare la fiducia della comunità?
“Primo, deve cambiare linguaggio: meno comunicazione celebrativa, più trasparenza e autocritica. Secondo, deve ridefinire le priorità: pochi ambiti chiave, scelti con metodo e partecipazione. Terzo, deve creare strumenti di valutazione e impatto, per capire cosa funziona e cosa no. Infine, deve aprirsi a nuove competenze e a una governance più dinamica, meno autoreferenziale. Riconquistare la fiducia richiede tempo, ma anche il coraggio di fare scelte nette”.
Infine, menzioni l’importanza di investire in “autonomia, lavoro vero, formazione libera e innovazione”. Puoi elaborare su come la Fondazione potrebbe contribuire a ciascuno di questi ambiti?
“Autonomia significa sostenere iniziative capaci di reggersi nel tempo, senza dipendere da finanziamenti ricorrenti. La Fondazione dovrebbe promuovere progetti imprenditoriali giovanili, reti del terzo settore, incubatori territoriali. Lavoro vero vuol dire lavoro dignitoso, stabile, non precario: occorre incentivare filiere locali di qualità, dall’agroalimentare alla cultura, dalla manifattura sostenibile alla tecnologia. Formazione libera implica percorsi formativi non subordinati solo alle logiche aziendali, ma capaci di sviluppare spirito critico e creatività. Collaborazioni con le scuole, le accademie, le università sono cruciali. Innovazione, infine, va intesa in senso ampio: non solo tecnologica, ma anche sociale e civica. La Fondazione può essere un laboratorio permanente di sperimentazione, se sa rimettersi in gioco”.