Tra istituzioni che arretrano e cittadini che resistono, il vero volto dell’ospitalità si gioca nei gesti quotidiani. Ma senza un nuovo patto anche la generosità si spezza
Sarà vero che Siena è una città accogliente? Oppure è solo una narrazione di comodo, una retorica che ci raccontiamo per sentirci a posto con la coscienza, mentre intorno si moltiplicano segnali di insofferenza e chiusura?
Me lo chiedo con un senso di disagio. Perché ho visto scene che parlano chiaro: richiedenti asilo relegati in strutture lontane da tutto, senza servizi, senza legami con il territorio. Ho ascoltato discorsi pubblici in cui la parola “migrante” viene associata quasi esclusivamente a un problema. Ho letto lettere indignate di cittadini che vedono nell’apertura una minaccia, e non un dovere civile. Ho visto allontanare i più fragili dal centro della città, in nome del decoro. Ho ascoltato, la preoccupazione, di un “eccesso di arrivi”, come se la proporzione tra chi scappa da una guerra e chi vive nella sicurezza del proprio quotidiano potesse davvero misurarsi in numeri.
Siena, come molte altre città italiane, vive dentro questa contraddizione. Da un lato, c’è un’accoglienza visibile, fatta di bandi, appalti, assegnazioni. Di numeri, cronoprogrammi, decreti. Spesso zoppicante, a volte burocratica, talvolta persino assente. Dall’altro, c’è un’accoglienza che si muove sottotraccia. Meno visibile, ma reale. Una Siena che si rimbocca le maniche senza troppi proclami. Fatta di persone che aprono le porte. Di parrocchie e associazioni, di centri sociali e cooperative, di studenti e insegnanti di italiano, di famiglie che accolgono, di medici volontari, di cucine solidali e sportelli improvvisati con mezzi poveri e cuore grande. Una Siena che non ha bisogno di bandiere per sapere da che parte stare.
Ed è in questo scarto — tra istituzioni che esitano e cittadinanza che agisce — che si consuma una tensione pericolosa. Quanto può reggere una società in cui lo Stato abdica e la comunità prova da sola a tenere insieme ciò che si sfalda? È un problema di giustizia, certo. Ma è anche un problema di tenuta democratica. Perché i volontari, per quanto generosi, non possono sostituirsi alle istituzioni. Possono supplire per un po’, ma non possono risolvere in modo strutturale. E se vengono lasciati soli, prima o poi si stancano. Si logorano. Si frammentano.
Si può chiedere ai cittadini di colmare ogni vuoto? No, non si può. Eppure è quello che accade. In silenzio, giorno dopo giorno. La distanza tra istituzioni e società è diventata una terra di nessuno, dove si consumano le frustrazioni. Dove i migranti vengono percepiti come “problemi da spostare”, anziché come persone da accompagnare. Dove i volontari, anziché essere sostenuti, vengono lasciati soli o guardati con sospetto. Dove i sindaci, stretti tra vincoli di bilancio e paura di perdere consenso, si rifugiano nella neutralità dell’immobilismo.
E allora, sì, qualcosa bisogna dirlo con chiarezza: senza un nuovo patto tra società e istituzioni, l’accoglienza non regge. E non regge nemmeno la città. Perché ogni frattura che ignoriamo oggi, sarà un conflitto domani. Perché una città che si rassegna al disinteresse istituzionale diventa una città più debole, più disillusa, più rancorosa.
Questa distanza va colmata, riempita di proposta politica, di cittadinanza attiva. Le istituzioni locali devono tornano ad ascoltare la propria base più generosa, quella che già oggi fa tanto con poco. Trovare il coraggio di non trattare l’accoglienza come una parentesi emergenziale, ma come parte integrante della qualità democratica del nostro vivere comune.
Siena può ancora essere una città aperta. Ma lo sarà davvero solo se il volontariato e le buone pratiche civiche non verranno più lasciate sole. Non possiamo continuare a vivere di eccezioni solidali, mentre il quadro istituzionale si svuota. Non è giusto. Non è sano. Non è sostenibile.