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lunedì, Marzo 31, 2025

David Bolici, un ricordo

Il filo sottile di un’amicizia con il due volte sindaco termale

Per me, David era un ragazzo. Nove anni di differenza. Quando sono venuto via da Chianciano, lui aveva nove anni. Non ci conoscevamo nemmeno.

Quando è diventato sindaco la prima volta, ero a Roma. La seconda volta, no. Allora c’ero, e Francesco Nerli, che non era più senatore ma ancora seguiva le cose del PDS, mi coinvolse in qualche modo. Ricordo una cena offerta proprio da Davide. La sua ricandidatura credo fosse contrastata, e bisognava trovare un equilibrio. Fu trovato il modo di sistemare le cose, ma gli anni successivi da sindaco non credo siano stati facili per lui. È il destino di chi si ritrova a governare realtà complesse: anche quando si vince, si è sempre sotto assedio.

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Lo ritrovai che faceva la spola tra Chianciano, Siena e poi anche Firenze. Impegnato in una società delle Camere di Commercio. Credo che il lavoro in sé non gli dispiacesse, forse anzi gli dava una sua soddisfazione, ma dai nostri colloqui ricavavo sempre l’impressione che la pendolarità gli pesasse, eccome. È un logorio sottile, quello dei viaggi continui: all’inizio sembra una fase, poi diventa un’abitudine, infine una condanna. Ogni tanto ci vedevamo: un caffè, un pranzo veloce, una telefonata. Finché è stato in vita il comune amico Francesco, quello era anche un modo per scambiarsi saluti e informazioni reciproche. Il ricordo comune di un amico diventa a volte un filo che tiene in piedi rapporti che altrimenti si sfilaccerebbero.

Qualche volta, raramente, l’ho incrociato a Chianciano. Sicuramente il giorno delle elezioni amministrative comunali l’ho visto al seggio mentre accompagnavo mia madre. Aveva un’aria sfiduciata, dimessa, di chi si sente fuori. Fu una sensazione netta, che mi rimase addosso per un po’. C’è un momento, per chi ha avuto ruoli pubblici, in cui si capisce che il proprio tempo è passato. Non è detto che sia una resa, magari è anche un sollievo, ma è un passaggio duro. Forse per lui lo fu più che per altri.

Mi ripromisi di sentirlo più spesso. Avevo preso l’abitudine di mandargli su WhatsApp qualche mio articolo di Siena Post. In qualche rarissimo caso, mi aveva risposto con un commento. Cose brevi, essenziali. Avvertivo il legame di un’amicizia, rafforzata dal comune ricordo di Francesco. E tuttavia lo sentivo distante. Non un distacco fisico, ma qualcosa di più profondo, come se si stesse consumando da dentro.

Sì, diciamola tutta: l’ultima volta che l’ho visto, salutato, stretto la mano e abbracciato, non aveva una bella cera. Gli occhi avevano quella stanchezza che non viene dal sonno, ma da qualcosa di più pesante, più radicato. Ma da qui a pensare che se ne sarebbe andato a sessant’anni, non lo avrei mai creduto possibile.

In questi casi resta il rammarico di non aver dato importanza a qualcosa nel suo sguardo, che forse era una richiesta muta. Ma la verità è che certe cose si capiscono solo dopo, quando non c’è più nulla da fare.

E allora si resta lì, con i ricordi, con i piccoli gesti scambiati, con la speranza che, in qualche modo, anche solo per un momento, la nostra presenza abbia potuto fargli compagnia.

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