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lunedì, Aprile 21, 2025

Siena e le sue periferie inattese

Uno sguardo sulla marginalità giovanile

Le recenti cronache senesi hanno riportato episodi di violenza che vedono protagonisti giovani, sullo sfondo di tensioni sociali latenti. Conducendoci a scoprire, forse semplicemente immaginare, dinamiche periferiche e problematiche che non pensavamo così presenti nel nostro tessuto sociale.

Proprio in questo scenario, un pensiero ci ha attraversato la mente offrendoci una chiave di lettura – quanto potente o fuorviante lasciamo scegliere ai lettori – mettendo in relazione la figura del “maranza” con quella più oscura del “paranza”, quasi a tracciare un percorso in cui l’ostentazione e la rabbia inespressa possono evolvere verso forme di violenza più strutturate.

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La riflessione che emerge da queste categorie interpretative ci spinge a guardare oltre le apparenze dei fatti di Siena e a interrogarci sulle radici profonde di un malessere che, pur manifestandosi in modi diversi, sembra accomunare le periferie geografiche ed esistenziali.

La Maranza fa rima con paranza? Nel lessico contemporaneo, certe parole sembrano nate per incontrarsi, come se condividessero lo stesso destino. Maranza e paranza, appunto.

La prima è recente, figlia dei social, dei centri commerciali e dei quartieri in attesa di qualcosa. La seconda ha radici antiche, ma è tornata con forza nel nostro immaginario con i libri di Roberto Saviano e a quella terribile verità: i ragazzini usati dalla criminalità come proiettili usa e getta.

Eppure oggi sembrano quasi sinonimi, o meglio, compagni di un destino parallelo.

I maranza non sono (sempre) delinquenti. Non ancora, almeno. Ma sono giovani intrappolati in una rappresentazione: catene al collo, tute firmate, motorini elaborati, trap a tutto volume. Hanno costruito un’estetica, un codice, un alfabeto che fa sorridere chi sta fuori, ma che dentro racconta disagio, bisogno, rabbia, imitazione e solitudine.

La paranza, invece, è la fine di quella corsa. È l’inquadratura finale: quando il ragazzino che voleva solo contare qualcosa finisce fritto. Letteralmente o metaforicamente. Perché nella frittura di paranza tutto è piccolo e indistinto: sogliole, triglie, acciughe. Tutti uguali, tutti sacrificabili. Ecco il punto.

La società prende questi ragazzi e li mette in padella: li cuoce nell’olio bollente delle aspettative mancate, delle famiglie assenti, delle scuole che non bastano, delle periferie lasciate a sé.

Il maranza si atteggia, si difende, si espone. La paranza uccide, ingloba, sostituisce. Ma la radice comune c’è: è l’indifferenza con cui guardiamo entrambe le figure. Il maranza ci diverte, la paranza ci spaventa. Ma in fondo entrambe le parole indicano lo stesso meccanismo: un sistema che consuma i giovani senza curarsene. Li guarda mentre si agitano, poi li ingoia.

Forse dovremmo smettere di ridere dei maranza e iniziare a domandarci cosa c’è sotto quel cappuccio.

E forse, dovremmo smettere di stupirci quando scopriamo che la paranza non è un fenomeno criminale, ma una logica sociale.

Che ci riguarda tutti. Anche noi che leggiamo da fuori, con le mani pulite e il cuore lontano.

Igor Zambesi

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