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venerdì, Settembre 20, 2024

Ecuador: recuperare la Memoria

Il racconto in tre tappe di un viaggio suggestivo a cavallo dell’Equatore

In questa breve cronistoria, vi racconterò di un fantastico viaggio in Ecuador. Non lo farò in maniera filologica o seguendo esattamente le tappe, ma scandendolo sul filo delle emozioni.

Ho dovuto attendere diversi giorni prima di riuscire a riordinare i pensieri in un racconto, perché mi sembrava ancora di sentire nelle mani le vibrazioni dello sterzo e nel naso l’odore della foresta, che non mi dava pace. Ma vi siete mai domandati che profumo ha la foresta? Beh, è difficile evocarlo con le parole. Forse profuma di vita: erba che nasce, muschio che copre, felce che ombreggia. Acqua che scroscia ritmica sulle grandi foglie dei banani, alberi che crescono senza fine in un disperato tentativo di raggiungere e occupare l’ultimo spicchio di cielo, e poi i fiori… fiori dai mille colori.

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Un ragazzo indigeno mi ha mostrato la “hormiga veinticuatro” o formica proiettile, dicendomi: “Il primo nome identifica la durata del dolore in ore, il secondo la quantità, paragonabile a quella di un proiettile che colpisce un arto.” Alzando delicatamente una foglia, ha aggiunto: “Vedi questi insetti o i vermi pelosi? Quelli con i colori accesi sono pericolosi. Cammina attraverso la foresta come se fossi una piuma, non toccare rami o foglie perché sono il rifugio di serpenti o ragni velenosi, ma se non gli dai noia, non sono interessati a te. E poi le rane, quelle colorate carine: non provarci a toccarle, sono mortali.”

Sorrido, pensando a quanto mi ero preoccupato del giaguaro, del caimano o dell’anaconda, ma è tutto il resto che devo temere!

La Riserva Floreale Pacaya

Partito da Quito, lasciatomi alle spalle il caotico traffico della metropoli, con le case che disordinate sciamano fino alle pendici dei monti, ho iniziato la salita lungo una piccola strada sterrata che, curva dopo curva, mi ha portato al centro di una foresta particolare, che racchiude una strana magia. Una coltre umida la ricopre; dai rami penzolano lunghe barbe, felci e licheni abitano il sottobosco, e persino la strada è verde, aggredita da soffici muschi.

Sembra che da giorni o settimane nessuno abbia messo piede in questi luoghi. Foresta Nebulosa, questo è il romantico nome dell’ecosistema, prende forma dal permanere delle nebbie, dalle nubi che stazionano impigliate sui fianchi della montagna. In questo ambiente dove tutto sembra sfumato, senza contorni definiti, le orchidee regnano. Decine di colibrì baciano i fiori con un frenetico e impercettibile battere d’ali, affondando il becco nei colorati calici.

Uno sprazzo di cielo azzurro, un raggio di sole ne segna il limite, marcando il confine tra questo mondo di folletti e la luce che vivida scioglie la magia. La discesa si è fatta ripida; il bosco ha lasciato il posto a piccoli campi strappati alla macchia, dove gli alberi di platano (simili ai banani) sono l’unica coltivazione che cresce in questi fazzoletti di terra. Per la gente, è un po’ come le nostre patate: il cibo dei poveri. Si raccolgono tutto l’anno e si cucinano in mille modi. La taverna dove mi sono fermato me ne ha portato un grande cesto, affettati fini e fritti croccanti come patatine.

Ora le nubi hanno nuovamente coperto il cielo con un sudario di tiepide gocce che nascondono il mio desiderio di sole. Forse il breve tratto di luce e la discesa dalle Ande verso il mare mi avevano fatto sperare che l’influenza di Pariacaca, dio della pioggia che risiede nelle alte montagne, fosse cessata, ma così non è. Sotto il diluvio, intabarrato dentro la spessa cerata, guardo la gente con i vestiti leggeri appiccicati alla pelle, i capelli imperlati di gocce, e un po’ li invidio. Hanno adattato il loro vivere a questa, per me, strana condizione: non allungano il passo, non fanno movimenti frenetici, nessun ombrello. L’acqua scorre sulla loro pelle lucida, come una benedizione.

La Playa de Cojimíes

L’oceano ha lasciato spazio a un largo e umido arenile. Prima di posare le ruote sulla battigia, mi fermo nel palmeto; le piante si genuflettono al vento, l’odore del mare è forte, grosse noci ancora coperte dal guscio verde che protegge il seme rotolano nella risacca. In cielo, gli urubù dalla testa grigia galleggiano nell’aria; sono decine, si lasciano portare dalla corrente, spalancano semplicemente le loro grandi ali e planano leggeri, ispezionando l’arenile. Dominano la zona, forti e possenti, hanno scacciato i gabbiani e si sono presi questo pezzo di paradiso.

Lunghe prore di legno colorato sbucano dalla duna; le barche dei pescatori sembrano pronte a dare l’assalto al mare. Esito un po’, poi, con malcelata emozione, inizio a percorrere la spiaggia. Cammino dove la sabbia è più dura; le ruote la scalfiscono appena e subito le onde dietro di me cancellano ogni segno del passaggio. Granchi rossi attraversano il mio cammino; sembrano muoversi in punta di piedi, come ballerini, per poi andare a nascondersi dentro profondi buchi scavati nella parte più asciutta dell’arenile. Se ti fermi un attimo, curiosi, riemergono con le chele spalancate per controllare il loro territorio.

Vado piano, ascolto il rotolare delle ruote sulla sabbia fine, il rumore che cambia quando incontro la ghiaia o lo sciacquio delle pozze d’acqua lasciate dall’oceano in ritirata. Cumuli di conchiglie decorano la riva, composti e ricomposti come in un quadro animato dal movimento delle maree. Faccio lo slalom tra tronchi bianchi, cotti dal sale, venuti a morire qui da chissà quale luogo, trascinati prima dalla corrente dei fiumi e poi spiaggiati in attesa di decomposizione, di tornare alla terra.

Un gruppo di pescatori è intento a portare a terra una lunga piroga. Spingono e tirano l’imbarcazione verso le mangrovie. Mi giro verso di loro e sono i primi a salutare, agitando la mano. La spiaggia tra Pedernales e il villaggio di pescatori di Cojimíes è lunga più di trenta chilometri. Quando finalmente, con i miei compagni, troviamo un rifugio tra i palmeti, un luogo dove passare la notte, spengo la moto e mi siedo in riva al mare. Sono fradicio, bagnato sia dall’acqua salata che da quella dolce portata dalle montagne. Ma che importa! Come se avessi gettato l’ancora, attendo che il freddo della sera mi scacci, mentre piano l’oceano mi viene incontro, si riprende l’arenile e torna a celare le sue meraviglie.

Sapevo che questo angolo di Ecuador, ancora poco conosciuto dal turismo di massa, avrebbe lasciato segni profondi nella memoria e nulla è stato disatteso. Concludo qui la prima parte di questo racconto; il prossimo lunedì vi porterò nella giungla.

(1 – continua)

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