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venerdì, Novembre 22, 2024

Georgia, i favi pieni di miele grezzo

Terza e penultima parte del racconto “Come un Lupo”. Nella prima parte, il nostro David Abashidze, avatar di Luca Gentili, ha affrontato le aspre montagne caucasiche alla ricerca di un passaggio a Sud. Nella seconda parte si è trovato al cospetto di una tribù, misconosciuta e bellicosa, gli Svan e da essi è stato accolto e sostenuto. Ma si annunciano i segnali di guerra e deve andare via…

Come un Lupo – Vakhtang

3: გ (gani) – “Avrei voluto essere un miglior padrone di casa”, aggiunse Bidzina. “So che la mia ospitalità non è stata all’altezza, ma spero tu capisca il momento”. Allontanatosi di qualche passo, versò del latte sulla pietra sacra posta accanto alla koshki (10), mi gettò addosso qualche chicco di grano e mi diede in dono un piccolo osso lavorato.

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Mentre mi allontanavo, lo vidi tenere la mano destra aperta verso il cielo, in un gesto tra il saluto e la benedizione. Sembrava guardare con rispetto il sole nascente, o forse la montagna, in un segno di buon auspicio. Un gesto rituale, nel tentativo di ingraziarsi le forze della natura, in un desiderio di armonia.

Mi allontanai a piedi, mantenendo il passo più veloce possibile lungo l’impervia via. Sul sentiero, con le briglie del cavallo in mano, non osai montarlo: la vegetazione, seppur bassa, ci faceva da schermo, proteggendoci da occhi indiscreti, altrimenti saremmo stati visibili da chilometri.

Trovato il torrente, mi misi subito a camminare vicino all’opposta sponda, continuando la ripida discesa. Fatti cinque, forse sei chilometri, ho dato un po’ di riposo all’animale. Non percepivo alcun rumore, nulla che mi facesse pensare a uno scontro.

Il mio karachai (15) è un cavallo robusto, abituato alle lunghe percorrenze, ma ha bisogno di precisi tempi di recupero se voglio percorrere almeno quaranta chilometri al giorno. Quando mi sono sentito abbastanza sicuro, lontano dalla battaglia, ho ripreso un passo costante per non sfiancare l’animale. Con precisa cadenza, mi fermavo ogni quattro o cinque chilometri per fargli riprendere fiato.

Ad ogni sosta, mentre l’animale quieto pascolava, io riordinavo le mie pergamene e riorganizzavo qualche nota. Mi ero fatto costruire una leggera scatola con il legno dell’albero che in abkhazo si pronuncia atsy (16). Gli angoli erano stati rinforzati con una sfoglia di rame; piccoli chiodi in rilievo e una fine lavorazione del metallo avrebbero potuto far credere che l’interno contenesse un vero tesoro, e in effetti, per me lo era. Lì c’erano le mie preziose carte e pergamene.

Per proteggere la scatola e il suo contenuto dall’umidità, la tenevo avvolta in una robusta pelle ben ingrassata, stretta con stringhe di cuoio. Facevo attenzione ad aprire il prezioso fagotto solo a mezzogiorno, con il cielo sereno, o quando trovavo un rifugio sicuro.
Insieme alle pergamene, c’era lo strumento per me più prezioso: la mia punta d’argento puro. Me la ero fatta montare su un bastoncino di legno, affilata, tracciava segni sottili e precisi. Per far sì che lasciasse un permanente segno sulla pergamena, trattavo la superficie con polvere d’osso, che reagiva con l’argento ossidandosi. Col passare del tempo, il sottile tratto prendeva una tonalità grigiastra.

Dovevo spesso rivedere le mappe, cercando di ricordare a memoria quanto tracciato, per controllare che nulla andasse perduto.

In una delle tante soste, mi venne in mente il fagotto che la donna mi aveva dato mentre frettolosamente lasciavo il villaggio. Incuriosito, lo aprii. Era rigido e pesante, e conteneva dei favi pieni di miele grezzo, colante. Ingolosito, ne staccai un pezzo e cominciai a succhiare le celle piene del dolce succo, del polline e di qualche prelibata larva.

Per tre giorni dormii vagando per i boschi, accanto a un piccolo fuoco. Spesso ripensavo al vecchio Bidzina e ai suoi gesti: chissà se aveva vinto la battaglia o se il clan nemico lo aveva sopraffatto. Sembra impossibile che in questi luoghi, dove la vita è già una scommessa, si debba combattere per l’onore del clan. Forse per un torto, o per qualche animale che, sfuggito al controllo, aveva sconfinato dai pascoli altrui o bevuto a una fonte sacra agli antichi.

Osservando l’orografia dei luoghi, non avevo trovato un cammino che potesse condurmi oltre le alte montagne. Annotavo però qualche sorgente calda, come ultimo sussulto di vulcani spenti da tempo. Lunghe colate di calcare bianco avevano sedimentato in superficie, coprendo piccoli tratti del fianco della montagna. L’acqua scorrendo lasciava onde di pietra, e sfumature color ambra arricchivano il bianco della tela.

Cercavo di muovermi sul margine del bosco, dove la vegetazione si faceva rada e cominciavano i prati di altura. Alzando lo sguardo, vidi solo colate di pietre. Poi, un giorno, una piccola valle parve incunearsi su quei ripidi fianchi.

Sul passo che mi aveva condotto a quella valle, trovai due grossi nagazi (17) a protezione delle greggi. A stento trattenni il cavallo, che imbizzarrito sfiorava il bordo del ripido sentiero.

Nel tentativo di difendermi da un possibile attacco, cercai di dare comandi agli animali con voce ferma, senza arretrare, proseguendo con calma e a passo lento, nonostante il mio cavallo fosse agitato e impaurito.

È sempre difficile affrontare un animale di cinquanta o sessanta chili che protegge il bestiame. Spesso mi ero trovato in situazioni simili e sapevo riconoscere i segni che avrebbero potuto scatenare l’attacco. Poi, un lungo fischio mi trasse d’impaccio.

Il pastore che mi guardava da un’altura indossava un lungo chokha (13) e delle sapka (19) di pelle. Uno spesso strato di feltro gli avvolgeva le gambe. Alzai la mano in segno di ringraziamento: me l’ero vista veramente brutta.

Lui ricambiò con lo stesso gesto, poi lentamente iniziò ad avvicinarsi. Scesi da cavallo, avevo bisogno di qualche informazione: erano alcuni giorni che non incrociavo essere umano e volevo tranquillizzarlo, apparire come un semplice viandante, non come una vedetta o, peggio, una spia.

Attesi che arrivasse e, quando era a pochi passi, alzai di nuovo la mano, con il palmo ben aperto in un gesto di saluto e di pace. I grossi cani gli giravano intorno, fedeli, in attesa di un ordine.

Quando si pose di fronte a me, lentamente, frugando nella bisaccia, come gesto di benvenuto gli donai un pezzo del favo di miele che mi era rimasto. Sgranò gli occhi: era per lui un dono prezioso, che subito volle ricambiare con un pezzo di formaggio stagionato che teneva in una sacca a tracolla.

Non potevamo continuare il nostro incontro con sguardi e doni, allora provai a dire akhyrta (villaggio) per capire se conoscesse qualche parola tra quelle universali più comuni usate tra i viaggiatori e i commercianti. Subito mi indicò un invisibile punto giù per la valle, proprio nel centro della catena montuosa.

Mentre mimava il percorso, tracciando un’invisibile serpentina con la mano nell’aria nel tentativo di indicarmi le curve e poi le valli che avrei dovuto attraversare, lo osservavo: il ragazzo che avevo di fronte era molto giovane, alto, con un fisico robusto, ma i radi peli sul viso dimostravano la sua tenera età.

Il nostro dialogo era qualcosa di surreale: prima provavamo con una parola, quando ci rendevamo conto che non aveva significato per entrambi, iniziavamo con il mimo.
La cosa era divertente: lui aveva una gran voglia di comunicare, io di sapere. Spesso, quasi con un gesto di stizza, ripeteva le parole più volte, come per dire: “Ma che sei sordo? Com’è possibile che tu non capisca?”

Intuii che era da mesi che non vedeva la sua gente, e che sarebbe tornato tra di loro solo all’inizio dell’autunno, quando negli alti pascoli sarebbero caduti i primi fiocchi di neve.
Mi portò dove si era costruito un giaciglio, anche se la giornata era ancora giovane. La sua dimora era un semplice muro a secco che lo riparava dai venti dominanti: un po’ di paglia su delle pietre piatte che fungevano da pavimento, e qualche pelle per il tetto che appena ci copriva, tenuta su da un paletto.

L’ho aiutato nella mungitura, nel radunare le pecore e nel preparare il formaggio. Anche io, da piccolo, avevo fatto il pastore, e anche se era passato molto tempo, i semplici gesti non li avevo dimenticati.

Condivise le poche cose che avevamo, ci siamo preparati per la notte. Al sorgere del sole, il ragazzo si avvicinò a me e, come se mi rivelasse un segreto che mai avrebbe voluto far conoscere ad anima viva, a bassa voce, più volte mi ripeté: “Anatori akhyrta Vakhtang,” battendosi la mano sul cuore.

Note

1 Norki – Abete / 2 Laghami –Piccolo tempio / 3 Mechi – arco / 4 Mezrki – frecce / 5 Shashka – spada ricurva / 6 Ghomi – farina di mais / 8 Sapar – ascia / 9 kama pugnale / 10 Koshki – torri degli svaneti / 11 Lomsuri – un pane rustico / 12 Matsoni – yogurt liquido /13 Chokha – tunica /14 Larh – miele / 15 Karachai – cavallo del Caucaso / 16 Atsy – Ontano / 17 Nagazi – cani pastore / 18 Sapka – scarpe semplici fatte con un pezzo di pelle / 19 Samghvini – segale in svan / 20 Mukha – quercia.

(3 – continua)

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