Olga e Chiara, “parlatrici alle pietre”, rivivono l’ampio scempio di vite innocenti immolate dai pirati turchi di Dragut
E’ passato un po’ di tempo dal nostro saluto a Sansevero ed alla sua cappella – ultima delle quattro parti -. Le loro parole risuonano ancora nelle nostre orecchie. Ci abbiamo pensato e ripensato; ci hanno lasciato come imbambolate. E’ stato come se l’energia della nostra anima si fosse pietrificata con quello splendido manto di marmo che celava, o meglio svelava, il volto di Cristo.
Ma dopo un primo momento di stasi, la nostra curiosità, il nostro desiderio di conoscere e svelare segreti pietrificati dal tempo ha preso di nuovo il sopravvento. Così abbiamo ricominciato, sempre più emotivamente coinvolte, il nostro viaggio immaginario ma, al contempo, reale e siamo giunte in Puglia, alle pendici del Gargano.
Il luogo che, stavolta, vuole narrarci una pagina della sua storia è Vieste, borgo che si affaccia con straordinaria originalità sul mar Adriatico.
Stasera, non è una sera come le altre: c’è aria di festa e la gente si riversa nei luoghi nevralgici del centro, tra gli effluvi delle pietanze tipiche e le musiche coinvolgenti. Noi no. Non stasera. Ci sarà tempo per immergerci nella fiumana di volti sconosciuti e arrossati per la calca e l’afa di questa sera estiva, in cui l’afrore umano si mescola con la salsedine che un leggero refolo marino reca con sé.
Siamo giunte in questo luogo per ascoltare, e l’ascolto, nel nostro caso, presuppone un silenzioso raccoglimento, affinché voci e pensieri di un Tempo immemore riaffiorino fino a noi con il loro carico di memorie. Così, ci discostiamo dai rumori della folla per immergerci nel dedalo medievale di strette viuzze e casette bianche del borgo antico, a cui il riverbero intermittente di rari lampioni conferisce un’atmosfera atempore e onirica.
Da lontano ci giunge, ovattato, il ritmo ossessivo della taranta, che materializza nelle nostre menti, già preparate alla suggestione, la visione rapida del movimento scattante e frenetico di piedi nudi e di quello vorticoso ed ipnotico di gonne rosse. Sappiamo dove dirigerci e senza indugio, superiamo la mole imponente della Cattedrale e, proprio accanto ad essa, fiancheggiata da una serie di gradini, ci imbattiamo nella tristemente celebre “Chianca amara“, monumento alla violenza e alla crudeltà dell’Uomo.
Ci sediamo in attesa che le mura vogliano iniziare a parlare. Non dobbiamo aspettare molto. Forse ormai abbiamo allenato i nostri sensi a percepire quello che prima sembrava difficilissimo se non impossibile. Forse ormai anche noi viaggiamo su altri canali che risuonano su altre frequenze. Per questo, probabilmente percependo la nostra sopraggiunta presenza, la Chianca inizia subito il suo racconto, con una voce dapprima simile ad un sussurro, che diventa via via più udibile.
“Fu una sera di festa come questa… nel luglio del 1554… ero solo una grande lastra di durissimo calcare pugliese, una come tante, trascinata fin quassù per essere impiegata nei lavori di ristrutturazione della grande cattedrale, o per la pavimentazione di questi luoghi, ma divenni, mio malgrado, tutt’altro – comincia -. Sono trascorsi oltre 4 secoli ma rammento bene le vicende drammatiche che sconvolsero questi luoghi”.
Siamo onorate di poter parlare con te. Grazie per aver deciso di raccontarti a noi. Parlaci della tua storia…
“La Storia ricorda i fatti di come il Sacco di Vieste, ad opera dei pirati ottomani sotto il comando di Dragut, terrore delle coste mediterranee. Con 70 galee, Dragut assediò per 7 giorni questa fiorente città, incontrando una strenua difesa da parte della popolazione, nonostante i 970 colpi di cannone rivolti contro le mura cittadine e contro il Castello. Il Governatore, nel corso di questa minaccia invocò invano l’aiuto delle autorità provinciali. In soccorso della sventurata Vieste, accorse solo il signore di Monte Sant’Angelo, Nicolantonio Dentice, con i suoi armati, ma pagò con la vita il suo gesto temerario, soccombendo alla superiorità numerica del nemico. La situazione, poi, subì una svolta nefasta quando un personaggio ambiguo, Nerbis, nella speranza di ottenere un compromesso con Dragut, aprì le porte della città ai corsari”.
Cosa accadde allora?
“Questi corsari – riprende – si riversarono in città, come un’orda di bestie fameliche, saccheggiando case e chiese e riversando la loro furia violenta sugli inermi abitanti, che avevano cercato rifugio tra le mura della Cattedrale e del Castello. Poi, non satolli di morte e violenza, avendo selezionato i giovani da destinare al mercato degli schiavi, massacrarono, sistematicamente, coloro da cui non avrebbero potuto trarre alcun profitto: bambini, donne e anziani. L’altare empio su cui vennero sacrificate queste vite innocenti fui io”.
Si ferma un istante, come ancora scossa da quei fatti lontani. Quasi come se provasse una sorta di senso di colpa per aver assistito inerme a quella carneficina. Poi lentamente riprende…
“Qualcuno ha parlato di cinquemila vittime e di altrettante trascinate riottose e piangenti su navi straniere che ne avrebbero ingoiato l’identità e le memorie, e fors’anche la stessa esistenza. Non so, so solo che ad un certo punto smisi di vedere di ascoltare le grida strazianti, di contare l’opera ignobile e instancabile delle scimitarre ebbre di sangue”.
Di nuovo si ferma. Ci pare di scorgere come lacrime amare che rigano la sua corazza. La sua superficie di pietra è come mossa dalla vibrazione potente del dolore a quel ricordo. Anche nelle nostre teste scorrono le immagini di quello scempio come la sequenza di un film.
E’ terribile quello che ci racconti…. Riusciamo solo a dire.
“Si, è indescrivibilmente terribile – ricomincia -. La mia superficie chiara, che la Natura aveva creato per assorbire la luce ed il calore del sole, era imbrattata di sangue e lacrime incolpevoli, mostruoso tributo alla crudeltà dell’uomo verso il proprio simile. Tutto questo scempio sacrilego proprio a ridosso di questo tempio di divino, in cui il simulacro dell’arcangelo Michele, eletto protettore dei popoli garganici, era rimasto, anche lui, sordo alle invocazioni disperate delle madri a cui venivano strappati i figli, a quelle delle vergini violate, a quelle degli anziani tremanti scherniti. Credetti che, persino la Natura, di fronte a tanto orrore perpetrato dalle sue creature, indietreggiasse. Invece il sole continuò ad alternarsi nel suo ciclo infinito, il vento a soffiare nell’oblio voci ormai inesistenti la pioggia a lavare via le tracce che mi avevano permeato ben oltre la superficie. Così divenni la Chianca amara. Amara come la morte, amara come tutte le esistenze falciate senza tenere conto della sacralità e preziosità di ogni singola vita, amara come questa vostra Umanità che, sin dalla Creazione diverge verso il Male piuttosto che verso il Bene comune”.
Non abbiamo parole. Forse non ci sono davvero parole per risponde qualcosa a quello che ci ha detto. Rimaniamo in silenzio per un bel po’. Noi da un lato e la Chianca, di fronte a noi.
Poi riprende: “Da queste parti, la chianca è una pietra molto diffusa, dalle sfumature calde, utilizzata da tempo immemorabile per la pavimentazione delle strade. Questo fui, ma la furia senza cuore di Dragut mi rese ciò che, nei dialetti meridionali, indica la pietra dove venivano esposte le carni macellate ed insanguinate degli animali, ad opera dei macellai”.
Ci furono altre tragedie simili nel nostro Paese? Chiediamo
“Vieste non fu l’unica tragedia che Dragut ed i suoi uomini inflissero alle coste italiche: dalla Liguria alla Calabria, una scia di sangue e distruzione seguì le terribili galee. Le modalità erano sempre uguali: i pirati piombavano come rapaci sparvieri sui villaggi costieri, sfruttando l’elemento sorpresa, per razziare tutto ciò che potevano. Per questo furono costruite torri di avvistamento che, ancora oggi punteggiano le coste. Ma questo dopo che un oneroso tributo di vite umane era stato già pagato. Ah Dragut, quanto dolore apportasti al genere umano!”
Era veramente pericoloso Dragut… Ma chi era esattamente?
“Si, lo era. Molto. Lo stesso imperatore Carlo V ordinò all’ammiraglio genovese Andrea Doria di catturarlo, esasperato dalle continue ed impudenti incursioni sulle coste spagnole. Tuttavia, dopo la cattura, Dragut fu rilasciato, sembra per interposizione del potente pirata Khayr al Din Barbarossa, di cui era luogotenente, tornando, con maggiore veemenza, a spadroneggiare nei mari. Dragut era nato in Anatolia, vicino Alicarnasso, celebre per ospitare una delle sette meraviglie del mondo: la tomba di Mausolo. Grazie alla meritocrazia vigente nell’impero ottomano, pur provenendo da una famiglia umile era riuscito ad assurgere alle più alte cariche militari, entrando nelle grazie del sultano Solimano il Magnifico”.
Come morì Dragut?
“La sua nemesi giunse senza avvisaglie, proprio come le orde voraci della Mezzaluna. Nel 1565, durante l’assedio di Malta, Dragut fu colpito, in fronte, mortalmente, da una scheggia di pietra in seguito ad un colpo sparato proprio da una delle sue navi. Gli subentrò Uluç Alì “il rinnegato”, che a voi è meglio noto come Occhialì, che lo vendicò, una volta espugnata la fortezza di Sant’Elmo, massacrando tutti i superstiti. Il suo vero nome era Giovan Dionigi Galeni, nato a Le Castella e rapito durante una razzia del pirata Barbarossa in Calabria. Ma questa è un’altra storia”.
Con queste parole la Chianca amara torna al suo silenzio. Silenzio denso di dolore così come la sua sostanza materica.
Assorte nel suo racconto dolente non ci siamo accorte che già i primi raggi di un’alba rossastra lambiscono i bordi frastagliati dell’antica roccia circonfondendola di un’atmosfera quasi irreale. Mentre ancora l’eco delle ultime parole sembra fluttuare nell’aria, il nostro udito è catturato da un altro suono che, in realtà, ha fatto da sottofondo discreto a tutta questa nostra avventura: lo sciabordio lento, sempre uguale del mare. Come in un sogno ci ritroviamo giù, sulla spiaggia: il panorama che si staglia davanti ai nostri occhi è mozzafiato.
La vista fatica a contenere tanta bellezza e tanta perfezione di particolari. È semplice comprendere il motivo per cui Vieste sia definita la “Perla del Gargano“. Davanti a noi, come una sentinella muta, si erge Pizzomunno, un monolite di calcare bianco che una leggenda vuole sia il bel pescatore che il dolore per la perdita della sua amata trasformò in pietra.
In questa atmosfera di rarefatta irrealtà, in cui la Natura si esprime in ogni singolo elemento, non è difficile immaginare come reale la storia d’amore di Pizzomunno e Cristalda, divisi dalla gelosia delle sirene che, infatuate della bellezza del giovane pescatore, trascinarono la fanciulla amata nelle profondità marine.
Sembra quasi di ascoltare, inframezzate dalla melodia delle onde che rotolano pigre sulla battigia, le note della canzone a loro dedicata: “Gigante di bianco calcare che aspetta tutt’ora il suo amore rapito e mai più tornato. Ma io ti aspetterò. Forse anche per cent’anni ti aspetterò “. E chissà se, come in ogni leggenda, ci sia un nucleo di verità storica e Cristalda altri non sia che la personificazione delle tante fanciulle rapite per sempre ai propri affetti e tradotte in luoghi sconosciuti e remoti.
Davanti a questo spettacolo imperturbabile della Natura, non possiamo non sentire nostra la riflessione di Dostoevskij: “Il cielo era stellato, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva se sotto un cielo così potessero vivere uomini senza pace…”