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giovedì, Dicembre 12, 2024

Il Cristo velato di Sanmartino: emozione fatta marmo

Si conclude il lungo ascolto di Olga e Chiara a Napoli fra le mura di Palazzo Sansevero e le volte dell’omonima cappella

Il tempo è passato. Abbiamo ascoltato l’insegnamento di Raimondo. Abbiamo allenato la nostra pazienza rimandando una prima e una seconda volta l’attesa delle parole di Palazzo Sansevero. È stata dura, ma lentamente abbiamo imparato a tenere sotto controllo il nostro moto interiore. In qualche modo siamo diventate un pochino più padrone della nostra essenza. Capaci di vedere “dal di fuori” il subbuglio dell’anima, la smania, l’ansia di sapere. Di vederle, di sentirle ma al contempo di non farsi risucchiare da loro.

Ci sediamo di nuovo nel silenzio. I battiti accelerati del nostro cuore martellano le nostre tempie. Chissà se la Cappella di Sansevero vorrà continuare a parlare con noi! Chissà se Raimondo riterrà che abbiamo imparato la lezione e che possiamo conoscere ancora!

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“Si tratta di due scheletri” – di nuovo la voce della Cappella interrompe il silenzio. Riprende da dove ci eravamo lasciate. Dalle due macchine anatomiche. – Un uomo e una donna incinta, con il sistema circolatorio e alcuni organi, perfettamente evidenti. Sappiamo che il Principe, in questo esperimento sconvolgente, fu coadiuvato dal medico palermitano Giuseppe Salerno”.

Sconvolgente! Incredibile!

“Intorno a questi macabri reperti, testimonianze di un’avanzata conoscenza anatomica, – riprende – sono fiorite varie ipotesi e leggende che gettano un’ombra ulteriormente sinistra sulle misteriose sperimentazioni del nobile. La più terribile vuole si tratti di due servi del principe, da lui fatti uccidere, utilizzando i corpi per i suoi scellerati esperimenti, in particolare iniettando una soluzione che avrebbe avuto l’effetto di “metallizzare” l’intero sistema arterio-venoso. Secondo altri studiosi, non sarebbero altro che riproduzioni in cera d’api e resine naturali che, comunque, stupiscono per la verosimiglianza.  Qualcuno riporta di esperimenti di palingenesi, cioè di rinascita, effettuati da Raimondo su piccoli animali, risorti dalle proprie ceneri, con evidente richiamo alla fenice, concetto di chiara matrice massonica”.

“Mio Dio! Quanto mistero! – esclamiamo esterrefatte. – Ci sono altri esperimenti celebri oltre a queste particolarissime macchine anatomiche?”

“Certo! Tra i suoi mirabili esperimenti vi fu anche la riproduzione del celebre miracolo di San Gennaro, che valse ad attirargli ulteriore astio e sospetto da parte della Chiesa. Raimondo, infatti, riuscì a ricreare in laboratorio un fenomeno molto simile alla liquefazione del sangue del Patrono di Napoli”.

“E come fece? – interrompiamo curiose.

“Utilizzando un amalgama di mercurio, oro e cinabro, simile al sangue, dimostrò che in seguito al movimento si otteneva un risultato speculare. La dimostrazione, ancora una volta, che molte cose che appaiono complesse, possono essere spiegate con i principi della fisica”.

Eh si, veramente! A volte le cose complesse hanno spiegazioni così semplici che, proprio perché tali, risultano oscure ai più. A questo punto, però, un’altra domanda ci viene spontanea: “Ma te, meravigliosa Cappella, come sei nata nei pensieri di questo personaggio così eclettico e pieno di sfaccettature?”

“Raimondo può essere “non accademico, ma una Accademia vivente in Terra”, si dedicò, parallelamente all’attività alchemica, alla mia creazione. In me possiamo cogliere la vera essenza del Principe, la proiezione della sua mente, labirintica come il mio pavimento della che custodisce l’eccentrico sepolcro. Raimondo curò personalmente, in ogni particolare, il mio progetto iconografico, ingaggiando i più valenti esponenti del panorama artistico coevo. Sammartino, Queirolo e Corradini, raggiunsero, in questo luogo, i vertici della loro arte, creando un universo corale unico e in grado di suscitare la “maraviglia” dello spettatore, anche dopo secoli. Posso dire di essere stata plasmata da una stupefacente comunanza di intenti, in cui artisti e committente hanno lavorato in una sinergia artistica ed estetica che ha pochi precedenti nella storia dell’arte. Il Principe dispose, nel suo testamento, che la Cappella rimanesse esattamente come lui stesso la aveva ideata”.

“E tu, Cappella che racchiudi l’essenza di Raimondo rendendola così eterna, come ti definiresti?”

“Molti mi definiscono tempio massonico… Non posso negarlo… Il colto osservatore potrà rinvenire fitti richiami al credo della loggia. Il triangolo, che nella iconografia cristiana è simbolo della Trinità, per i massoni rappresenta la carica di Gran Maestro; la piramide, che rimanda ad elementi vitali come lo zolfo e il fuoco. La sensualità della statua della Pudicizia, si spiegherebbe identificandola con Iside velata dea dell’amore egizia, ai cui piedi germoglia quello che potrebbe essere l’albero della vita. Il velo stesso che avvolge alcune statue, primo tra tutti lo stesso Cristo velato, è simbolo misterico di passaggio verso la rinascita e la conoscenza”

“Ecco, appunto, il Cristo Velato. L’opera per la quale forse sei più famosa. Puoi parlarcene?”

“E’ la scultura che fece dire ad un ammirato Canova: “Darei dieci anni della mia vita pur di essere stato io l’autore del Cristo velato!” – ci risponde orgogliosa. – Lo scultore a cui si deve questo prodigio del ‘700 napoletano è Giuseppe Sanmartino che, all’epoca dei fatti, aveva 33 anni, la stessa età del Cristo che stava scolpendo. Per lui fu un’impresa davvero temeraria, viste le aspettative del principe e la complessità dell’opera. È raffigurato un Cristo appena deposto, adagiato su un giaciglio dagli eleganti cuscini, con gli strumenti della sua Passione posti ai suoi piedi. L’eccezionalità dell’opera è costituita dal velo marmoreo che, come per la Pudicizia, ma con esiti più alti, anziché celare, svela i particolari più minuti del corpo esanime. È tutta in quel volto, in quegli occhi socchiusi, in cui sembra brillare una lacrima, nell’abbandono indifeso, esposto, l’umanità del Figlio di Dio. È un’immagine di forte impatto emotivo che vi conduce in un’atmosfera quasi metafisica, senza Spazio né Tempo, dove esiste solo il sentimento di una umanità sofferente ed incompresa, ma al tempo stesso sbalordita dall’ingegno che la rivela riflesso terreno di Dio”.

Ci voltiamo ad osservare l’opera e ci sale la commozione. Anche nei nostri occhi appare timida una lacrima. Quanta bellezza! Quanta poesia in questo pezzo di marmo! Marmo più vivo di tante persone ritenute vive; marmo che parla la lingua universale dell’arte che tocca le corde più nascoste di noi.

“Nelle intenzioni del principe – riprende la Cappella – l’opera avrebbe dovuto fare bella mostra di sé nella penombra della Cavea, illuminata dalla luce soffusa e suggestiva di un’altra delle tante invenzioni di Raimondo, il lumen perpetuo, una sostanza ricavata dal cranio umano e capace di bruciare per mesi. Ma oggi il Cristo occupa il posto che gli spetta, costituendo il fulcro di me, al centro della mia navata, come punto di arrivo di un percorso, il cui fine è la Verità e la Rinascita. Infatti, se indugiaste sui particolari della magnificenza che vi sta davanti cogliereste il potente dinamismo che erompe da questa figura solo in apparenza inerte”.

Ed è proprio cosi! Senza dubbio!

“Il sudario che, come una novella Sindone, ci restituisce le fattezze ben definite del volto, nelle sue dettagliate, infinite pieghe, sembra percorrerlo ed enfatizzarlo, conferendo al corpo un fremito vitale. È una Deposizione che potrebbe evolversi in Resurrezione: un ultimo ansito di vita che potrebbe essere il primo di una Rinascita, un corpo che è sul punto di destarsi non per tornare a una fallace vita terrena, ma per essere chiamato ad immergersi in una dimensione dove non esiste sofferenza ma solo Luce”

Quanta poesia!

“Gli arti contratti – continua la Cappella, visibilmente emozionata nel racconto di quest’opera -, la vena sulla tempia sinistra che sembra pulsare, tanti minimi particolari che, colti nell’insieme, suggeriscono un’immagine di Vita piuttosto che di Morte. Lo stesso velo, la cui perfezione ed il risalto plastico che conferisce alla figura sottostante, ha dato origine alla leggenda secondo cui sarebbe frutto di un misterioso processo di marmorizzazione applicato dal Principe in persona, su un tessuto reale. Circostanza smentita da un documento coevo autografo, in cui Raimondo parla, in riferimento alla scultura del Cristo, di “un velo trasparente, realizzato dallo stesso blocco della statua”. In marmo di Carrara, dunque”. “Riflettendo sugli ideali esoterico-massoni del principe di Sangro, in cui i concetti di rinascita e di superamento della dimensione terrena sono centrali – ci azzardiamo a dire Olga ed io – la chiave di lettura di questo Cristo “vivo” non sembra poi così azzardata. Sei d’accordo?”

“Certo! Il sudario stesso potrebbe alludere, con la sua consistenza eterea, a quanto sia labile il limes tra Vita e Morte, il passaggio tra le due dimensioni. Molti degli esperimenti di Raimondo, miravano proprio a squarciare il velo della Conoscenza per indagare l’insondabile. Infine, c’è una coincidenza che non può essere casuale….”

Di nuovo tace la Cappella. Come per farci struggere nell’attesa. Resistiamo qualche attimo, ma a questo punto del racconto per noi non è facile attingere alla dote della pazienza. La curiosità è troppa! “Quale?” Chiediamo

“Pensateci! Basta riflettere un attimo!- riprende la Cappella, un po’ come a redarguirci -. Il mio nucleo originario, come vi ho narrato, nacque dal dolore di una madre, Andreana Carafa, per il figlio morto, Fabrizio. Cristo è il Figlio morto per eccellenza, riassume e, soprattutto, espia, l’intera, eterna, parabola di una umanità ferita, peccatrice. Così come ogni figlio ucciso, viene trasfigurato, e purificato, dall’amore e dal dolore, di una madre disperata, così l’immagine di Fabrizio, morto e vilipeso per amore, si fonde con quella di Cristo, morto anch’egli per un Amore, più nobile e puro”.

Cristo come simbolo di un’umanità sofferente. Ma anche Cristo accomunabile alla singola, particolare, storia di Fabrizio.

Cristo velato. Ma con un velo che, anziché coprire, svela particolari. Velo che separa due realtà che in realtà sono un tutt’uno.

Ci sentiamo come ubriache, stordite da tanto. Rimaniamo attonite ad ammirare il dolore che traspare dal volto di Cristo, sofferenza che però “svela” l’ “oltre”. L’ “oltre” che in realtà non è poi così oltre, ma è qui. Connesso, solo dietro al velo. Velo che però, se guardato con lo spirito aperto dell’esoterista, inteso come lo intendeva Raimondo, non copre, bensì mostra.

“Ed ora andate – ci esorta la Cappella. – Tornate nel mondo. Ma con questo seme nel petto. Il seme che Raimondo ha voluto far germinare in me per renderlo eterno. Il seme della conoscenza, del voler andare oltre alle sterili definizioni imposte, della ricerca che a volte ha bisogno di liberarsi dalla logica per poter portare frutto e crescita. Andate. E condividete. Condividete la magia che questo “velo che svela” ha lasciato nei vostri cuori”.

Così lentamente usciamo. Questa volta ci accingiamo a salutare definitivamente il palazzo di Sansevero e la sua cappella. In silenzio. Con una danza nel cuore. Grate.

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