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sabato, Novembre 2, 2024

Altro amore insanguinato a Palazzo Sansevero

Olga e Chiara non mi hanno mai voluto spiegare. Se cioè, al riparo da occhi indiscreti, riescono davvero a parlare con le pietre, oppure entrano in una sorta di trance medianico e qualcosa/qualcuno dialoga con il loro subconscio… l’unica cosa certa è che quando fa giorno tutto si interrompe, quindi l’ultima volta l’abbiamo lasciate davanti a Palazzo Sansevero a Napoli che – saputi i retroscena di Maria d’Avalos trucidata – si inventavano il modo di passare la giornata per ascoltare ancora le storie di quel palazzo (dr)…

Dopo una giornata passata aspettando la notte, finalmente l’oscurità e il silenzio di nuovo avvolgono Napoli. E noi siamo di nuovo sedute al cospetto di Palazzo Sansevero. In trepidante attesa. Desiderose di sentire di nuovo la sua voce.

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Passano i minuti, passa un’ora. Il Palazzo è ancora immobile, sembra quasi non voler continuare a parlare. Ma noi non possiamo venire via da Napoli senza aver saputo da lui tutto quello che c’è da sapere.

Chiudiamo gli occhi e, con il cuore in mano, con la voce dell’anima proviamo a trovare un contatto con lui. Ancora silenzio. Poi, proprio quando ormai avevamo perso la speranza, ecco di nuovo la sua voce.

“Volevo vedere se eravate veramente interessate a conoscere il resto. Volevo vedere quanto avreste resistito ad aspettarmi senza che io parlassi”. Sembra sorriderci un lucernario. Che bello! E’ di nuovo in contatto con noi. Ha voluto metterci alla prova, ha voluto testare la forza del nostro desidero di trascorrere con lui ancora un’altra notte!
“Ora so che siete veramente mosse da un animo sincero – riprende. – Avete saputo aspettare. Ora potete chiedere. Sono qui per voi”.

Timorose, con voce quasi sussurrata chiediamo: cosa accadde dopo l’efferato delitto che ci hai raccontato la notte scorsa?

“Essendo coinvolte nel fatto di sangue alcune tra le famiglie più blasonate del regno, come era consuetudine, si procedette ad una frettolosa chiusura del caso, rimarcando la legittimità della vendetta per adulterio. L’adulterio, nella mentalità del tempo, pur essendo praticato da molti, era considerato una colpa gravissima, soprattutto presso le classi nobiliari, poiché avrebbe potuto mettere a rischio la legittima discendenza. Carlo Gesualdo fece ciò che la società di quei tempi si sarebbe aspettata da un marito tradito, con l’aggravante della crudeltà. Probabilmente, giocò un ruolo non secondario l’istigazione di chi gli stava intorno. Esplosione così parossistica di violenza può essere giustificata solo da un rancore covato per molto tempo e che, finalmente, aveva trovato modo di concretizzarsi”.

“Probabilmente – continua -, Carlo si fingeva ignaro, in attesa di cogliere la moglie in flagranza. Per la sua personalità austera e complessa, l’oltraggio al buon nome e all’onore del casato di appartenenza era più grave del tradimento stesso. Travolto da una furia incontenibile, si dice non avesse risparmiato neanche il secondo figlio infante, nato da Maria, sospettando fosse frutto dell’unione clandestina. In seguito al misfatto, Carlo, temendo rappresaglie da parte delle famiglie Carafa e D’Avalos, preferì, su incoraggiamento del viceré, abbandonare Napoli, ritirandosi nel tetro castello di famiglia, in Irpinia. Non lo vidi più attraversare le mie sale, con il suo passo triste e né sentii più risuonare le sue malinconiche melodie. I primi anni dopo il delitto so che li trascorse a meditare su un rimorso che, dissero in molti, non fosse reale. Piuttosto, viveva nel terrore di una vendetta delle famiglie degli uccisi, tanto da far abbattere un bosco che ostacolava la visibilità dal suo castello fortezza. I Carafa, in particolare, covavano risentimento perché Gesualdo aveva fatto ricorso ai suoi servi per uccidere il loro congiunto”.

Davvero una storia intrisa di dolore, da qualsivoglia lato la si voglia guardare. Vite spezzate dalle catene delle convenzioni sociali, animi travagliati ed insoddisfatti dei loro giorni…

“Intanto – riprende Palazzo Sansevero – il padre era morto, rendendolo, giovanissimo, uno dei proprietari più ricchi del sud. Nel 1594, Carlo convolò a nuove nozze con Eleonora d’Este, duchessa di Ferrara, che condivideva con lui la passione per la musica. Fu anche questo un matrimonio di convenienza, che teneva ben presente non solo le grandi ricchezze di Carlo ma, anche, i suoi importanti legami familiari (San Carlo Borromeo era il fratello della madre). Per un periodo gli sposi vissero a Ferrara, all’epoca vivace centro musicale, dove nacque il loro unico figlio Alfonsino. La morte prematura del bambino incrinò i rapporti già tesi tra i coniugi. Eleonora iniziò a passare periodi sempre più lunghi a Ferrara, con la sua famiglia, a causa dell’impossibile convivenza con quell’uomo che la tradiva continuamente e la vessava con il suo carattere paranoico e avaro. Gli ultimi anni della sua vita trascorsero in un clima di spasmodica esaltazione religiosa, volta a una dimensione penitenziale che si concretizzò nella costruzione di due conventi e due chiese, in cui è custodita la celebre “Pala del perdono”. In essa, densa di significati allegorici, Carlo si fa raffigurare, in compagnia di alcuni suoi familiari mentre, in ginocchio, implora il perdono dei peccati suoi e dell’umanità intera”.

Come furono gli ultimi giorni della vita terrena di Carlo? Chiediamo…

“Rinchiuso nel suo castello fortezza, di nuovo solo, realizzò che dei burrascosi matrimoni non gli era rimasta che un’eredità di rimpianti, rimorsi e incomprensioni. Quando anche il primogenito Emanuele, il figlio avuto da Maria, morì ventiseienne, in seguito ad una caduta da cavallo, si rifugiò nelle pratiche religiose estreme, come l’auto flagellazione, nonostante il fisico già minato da vari malesseri. Morì a soli 47 anni, tormentato “da gran moltitudine di demoni” ed il suo nome e la sua storia personale sono ancora oggi sinonimo di leggenda nera ed anima senza pace e senza redenzione. Un compositore “tanto grande quanto inquietante”, così amò definirlo Stravinsky”.

Siamo come rapite dalle parole del Palazzo. Come essere catapultate dentro il suo racconto e viverlo in prima persona. La sofferenza di questa gente è ancora così potentemente presente e viva nelle mura di questo luogo che è impossibile non percepirla. Tutto trasuda sofferenza qui…

Da tutto questo sono nate le leggende che si sentono su questo posto? Chiediamo ancora…

“Sicuramente! – risponde subito il Palazzo -. Da quella terribile notte, si dice, la pace non la trovò neanche la sfortunata Maria: per secoli, gli abitanti della zona udirono, nelle notti senza luna, il suo urlo agghiacciante e disperato. Il fenomeno cessò nel 1889, quando la mia ala, dove si era consumato l’orrore, crollò, a causa di infiltrazioni d’acqua. Da allora, sembra che il fantasma di Maria si manifesti in piazza San Domenico maggiore, a notte inoltrata, come una figura evanescente, bellissima, ma con una espressione smarrita e disperata. D’altronde, ella stessa scriveva al suo bel Fabrizio: “Signor Duca, più mortifero mi riesce un momento di vostra lontananza che mille morti…”. Nella chiesa di San Domenico maggiore, sull’altare della cappella della famiglia Carafa, si trova un piccolo quadro, raffigurante una giovane Madonna: secondo alcuni è l’unico ritratto esistente di Maria D’Avalos. È dipinta nella bellezza acerba, ma già promettente, dei suoi quindici anni, probabilmente all’epoca del suo primo matrimonio, ironia della sorte, con un altro Carafa. Il suo viso sembra trattenerne un sorriso, gli occhi bassi, quasi a schermirsi sotto lo sguardo dello spettatore, ignara del suo destino. Sembra vegliare, ancora, e per sempre, sul suo Fabrizio, in una dimensione dove non esiste dolore, e l’amore non è peccato. È un eterno incontro, poiché, come scrisse, ancora: Se morirò con voi, non sarò mai lontano dal mio cuore, che siete voi… “.

Timorose che il tempo di nuovo faccia da padrone e che il ritorno del sole ci porti ancora via la voce del Palazzo, incalziamo chiedendo: parlaci anche di Raimondo di Sangro principe di Sansevero, per favore… Vogliamo sapere anche di lui…

“Il “trait d’union” tra la tragica vicenda che vi ho narrato e quella dell’eclettico Raimondo di Sangro principe di Sansevero, è una nobildonna bella e volitiva: Andreanna (o Adriana) Carafa della Spina. Adriana si era unita in un primo matrimonio con Antonio Carafa della Stadera. Da questa unione, era nato Fabrizio, lo sfortunato amante di Maria D’Avalos. Rimasta vedova ancor giovane, Adriana era convolata a nuove nozze con Giovan Francesco Paolo di Sangro, primo principe di Sansevero, divenendo la matriarca dei principi di Sansevero. Tra l’altro Giovan Francesco era stato padrino di battesimo del piccolo Fabrizio. La tragedia del 1590 sconvolse, com’è ovvio, l’intera famiglia e ad Adriana, distrutta dal dolore, non rimase altro che la pia incombenza di assicurare la salvezza all’anima di quel figlio morto”.

Di nuovo Palazzo Sansevero lascia trasparire la sua compassione per tanto dolore provato fra le sue mura. La sua voce sembra quasi incrinata dal pianto. Si ferma ancora un attimo, poi riprende con commozione: “Quel suo figliolo impetuoso, l’orgoglio del suo cuore, che la vox populi definiva il cavaliere più bello e valoroso di tutta Napoli, non era più: morto, per la rovinosa passione verso quella spagnola, e di che morte! Se pensava a quelle carni della sua carne, straziate ed esposte, avrebbe voluto perdersi nell’oblio della morte anch’ella. L’unica consolazione per lei era sapere il suo Fabrizio nella pace eterna e clemente del Signore. Così, sostenuta dall’altrettanto pia nuora, Maria Carafa di Stigliano, implorò il Papa affinché concedesse un’ indulgenza a favore dell’anima del figlio. Si recò altresì da suor Orsola Benincasa, una religiosa eremita, personaggio carismatico dell’epoca, per chiedere ulteriori preghiere in suffragio. Maria, moglie legittima di Fabrizio e madre dei suoi figli, per la vergogna, si rinchiuse in convento, assumendo il nome di Maria Maddalena, morendo quasi in odore di santità. Aveva trascorso la sua esistenza a trasfigurare l’orgoglio ferito di moglie tradita in quotidiano martirio, da offrire al Signore. Ottenuta l’indulgenza da papa Paolo V, Adriana volle far costruire una piccola chiesa, in un luogo attiguo a quello dove si era consumato il duplice delitto, dedicandolo alla Mater pietatis, come ex voto, testimonianza del suo imperituro dolore”.

La Cappella San Severo!… esclamiamo entrambe. Incredule che un luogo di così tanta bellezza sia nato da così tanto dolore…

“Si – risponde il nostro interlocutore.- Questo luogo altro non è che il nucleo originario di quello scrigno di meraviglia barocca che sarà la cappella San Severo. Sull’altare fece porre un quadro raffigurante la Pietà, immagine speculare del suo stesso sgomento impotente. Una madre che, seguendo l’esempio mariano, antepose il perdono e la misericordia ad una facile vendetta. Ecco che, finalmente, posso svelare il segreto emerso di recente, ma di cui io ero a conoscenza da tempo immemorabile: Maria e Fabrizio non morirono tra le mie mura, bensì nel Palazzo Piccolo, dove i Gesualdo vivevano in locazione, e che comprendeva la piccola cappella votiva, che Adriana trasformerà nella Pietatella”.

Con questa confessione, Palazzo Sansevero, torna al suo pietrificato mutismo. Questa volta a nulla vale il nostro implorare di continuare a parlare con noi ancora per un po’. Sappiamo che ormai il contatto è finito.

Ma non è finita la nostra voglia di sapere. E quindi torneremo ad approfondire la storia di Raimondo di Sangro di cui ci ha detto per ora ben poco. Tutto è immobile intorno a noi. Con il silenzio del Palazzo, tornato questa volta inesorabilmente ad essere di pietra, tutto sembra essersi fermato.

Ci troviamo come avvolte in una strana, stranissima sensazione in cui tutto intorno pare vivo sebbene immutabile. Sentiamo solo il rumore del nostro cuore che batte al ricordo di tutte le parole che abbiamo appena sentito. Siamo sole ma al contempo è come se fossimo circondate dalle persone di cui ci è appena stata raccontata la storia. E’ come se il loro respiro, vivo nonostante la morte terrena, alitasse sul nostro collo.

Percepiamo chiaramente la potenza della loro presenza. Ed insieme la potenza del loro dolore che vibra forte in queste pietre di fronte a noi. Ma da questo dolore è nato il germoglio di una bellezza rara. E’ nato questo posto. Come a ricordarci che qualsiasi cosa possa apparirci terribile ed ingiustificata nelle nostre piccole, piccolissime esistenze su questa terra, in fondo concorre ad un bene più grande di noi.

Contiene in sé il seme di qualcosa che, sebbene noi non siamo in grado di capirlo con la nostra ragione, va oltre di noi. Basta solo chiudere gli occhi nell’atmosfera magicamente sospesa della notte per sentirlo schiudere dentro di noi. Come una crisalide che si trasforma in farfalla nella parte più segreta del nostro cuore e che poi inizia a sbattere le ali accendendo il nostro corpo e la nostra anima di un indomabile fremito.

(2 – continua)

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