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venerdì, Novembre 22, 2024

Un vero fortino quel capanno a bacìo

Situato in alto, serviva a sparare ai migratori. Fresco sempre, d’estate era un incanto

Torna quest’oggi la rubrica di Luca Gentili, lui è al tredicesimo giorno di percorrenza nel bush australiano. In compenso è felice. “(…) Sono felice di viaggiare con una vecchia moto, mi impedisce di andare veloce e mi permette di osservare le cose. Puzza sempre forte di benzina e fa un po’ di rumore (…). Sono felice del sole che mi ha cotto durante il tragitto e del freddo del mattino, della birra ghiacciata dall’esotico nome bevuta all’arrivo accanto ad uno sconosciuto che vuole raccontarti una storia e vuole sapere tutto di te (…)”. In sua attesa godiamoci quest’altro racconto che la “scatola del tempo” di Luca ci fa arrivare dalle Masse senesi più o meno a inizio anni ’60. Anzi lui lo definisce così: “Un altro piccolo racconto ripreso dagli archivi della memoria, di quando piccino vivevo con mio nonno” (dr).

Il capanno a bacìo

Ho sentito il nonno sgattaiolare in soffitta, è un luogo che mi mette apprensione, è come se la casa lì mutasse improvvisamente d’aspetto.

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La porta si apre su un angusto andito, una volta entrati, le pareti si fanno minacciose, l’intonaco da bianco e liscio, diviene ruvido e storto, sembra venirti incontro.

Tutte le volte che salgo la ripida scala devo vincere la paura: al posto di un solido corrimano, infissa nella parete c’è una cordicella ritorta, intorno, stampate sul muro, impronte grasse, alcune più lunghe sembrano graffiare disperate la parete.

Dal piccolo abbaino la luce filtra polverosa, la rampa ad angolo retto si ferma su un pianerottolo con due piccole porte grigie entrambe socchiuse.

Mi fermo sulla soglia indeciso sul da farsi, ascolto, nessun rumore proviene da dentro, sbircio dalla fessura nella prima… oddio le teste dei girasoli appese all’ingiù sembrano tanti impiccati, sotto, il graticcio assomiglia a uno strumento di tortura con l’uva stesa ad appassire, i mazzi di finocchio secco espandono nell’aria un odore dolciastro, ritiro piano indietro la testa dal pertugio senza fare rumore, preoccupato di non risvegliare le inanimate cose.

Apro piano la seconda porta, il nonno è lì, chino su una piccola gabbia, la testa lucida, glabra; gli orecchi un po’ appunta lo fanno assomigliare ad un folletto, si gira con un sorriso, mi aveva sentito, si porta un dito sulla bocca, per dirmi di fare silenzio, scopre piano il telo che ricopre la gabbia e il merlo inizia a cantare.

Poi rivolgendosi verso di me, dice sorridendo, a merenda ti porto al capanno. E mi si illumina il volto.

So cosa vuoi dire, una lunga bellissima passeggiata tra le viti maritate ai gelsi, su per il viale di cipressi che piace tanto allo zio Latino.

Percorreremmo tutto il campo fino alla parte più alta che guarda a bacìo, esposta a nord, dove la brina in inverno non dimoia mai e ci fa un freddo birbone.

In quel luogo il nonno ha costruito un capanno per la caccia ai migranti, gli uccelli di passo; in estate, nelle ore più calde, è un luogo fresco. Il nostro rifugio.

Ci incamminiamo su per lo stradone, la parte di campo sodo, dove passano i carri, l’erba nelle prode è alta, io corricchio avanti poi mi fermo e torno indietro a rifugiarmi nella sua mano, da lontano vedo Livio arrivare, cammina col suo incedere impettito di attendente in congedo.

Ci raggiunge con un grosso cesto proprio sull’uscio del capanno, il nonno schiaccia l’erba prepara uno spiazzo, una specie di nido, apriamo il cesto che è pieno di fichi.

Da un lato, un fagotto di carta gialla legato con lo spago, il nonno lo apre e ne estrae un gran pezzo di prosciutto, fa piccole fette col coltello appoggiandolo al petto, poi me le porge avvolgendoci un fico sbucciato.

Sdraiato nell’erba ne mangio fino a che le labbra non iniziano a bruciare, tanto forte da dover correre al fontone per ritrovare sollievo nella fresca acqua del pozzo.

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