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domenica, Ottobre 13, 2024

Così è nato Diario Balcanico

Il 5 ottobre al Circolo Due Ponti l’iniziativa dell’istituto Storico di Modena contro le guerre

“La realtà è che non sopportavo più di sentir dire che l’Europa stava attraversando il più lungo periodo di pace della sua storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dimenticando quello che era successo nei Balcani, come se non fossero Europa, come se l’Europa dovesse identificarsi solo con l’Occidente”.

Partendo da questa base Silvia Mantovani, collaboratrice dell’Istituto storico di Modena, ha dato il via a un progetto di conoscenza e di studio che ha coinvolto varie realtà, fra le quali l’Università di Modena e Reggio Emilia  e l’associazione Insieme per Angela, nata in memoria di Angela Benassi, scomparsa nel 2012, persona impegnata in politica e soprattutto nel sociale. Fra giugno e luglio il progetto si è tradotto in un viaggio in Bosnia Erzegovina al quale hanno partecipato 14 studenti universitari insieme alla professoressa di storia contemporanea Deborah Paci. Di questa esperienza si parlerà in “Diario balcanico”, incontro organizzato il 5 ottobre alle 17.30 al circolo Arci Due Ponti al quale oltre agli studenti e alla loro docente parteciperà anche il regista italo-bosniaco Ado Hasanovic, autore di cortometraggi dedicati alla tragedia che ha afflitto il suo paese e tutta la ex Jugoslavia negli anni Novanta.

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Dottoressa Mantovani, organizzare questa esperienza in Bosnia è stata una scommessa importante, ma sembra corretto dire che si tratti di una scommessa vinta, anche solo a giudicare dal numero dei partecipanti.

“In effetti è così. In origine dovevano venire 10 studenti che beneficiavano di una borsa di studio, poi se ne sono aggiunti altri che hanno sostenuto in proprio le spese e alla fine si sono aggregati anche numerosi adulti. Siamo partiti in 41, ma avrebbero potuto essere di più; semplicemente il mezzo di trasporto non permetteva altre presenze”.

Silvia Mantovani, Istituto storico Modena

La decisione di organizzare questo viaggio quando nasce?

“Quando mi sono laureata in Gran Bretagna avevo una compagna di studi che era di Sarajevo ed era lì come profuga. In sostanza ho conosciuto molto presto questa tragedia dimenticata dall’Europa, che per l’Italia ha un valore particolare, visto che i Balcani sono ai nostri confini. Così in seguito, e arriviamo al 2017, ho proposto all’Istituto storico di Modena un percorso di formazione per insegnanti e studenti che poi si è aperto agli universitari fino all’esperienza di pochi mesi fa. Con noi è venuta anche una studentessa bosniaca ortodossa, definizione che la qualifica come serba. I suoi genitori sono rimasti feriti nel fisico e nella mente, e lei non aveva mai visto la Bosnia. E’ stato come ritrovare le radici”.

Cosa ritiene che sia rimasto agli studenti, i giovani che saranno a Siena il 5 ottobre?

“Intanto hanno avuto consapevolezza delle conseguenze di una guerra. Abbiamo visitato luoghi come Mostar ancora completamente divisi: puoi ricostruire gli edifici ma non il tessuto sociale. A Sarajevo non c’è più la popolazione di prima dell’assedio, adesso ci vivono i montanari che hanno lasciato i villaggi attorno. La guerra in Bosnia ha causato un enorme spostamento di popoli e durante il viaggio abbiamo incontrato una lunga serie di villaggi del tutto deserti. Capisci che c’era un paese perché noti i cimiteri. Ricostruire le case è un modo per dire che i bosniaci ci sono, anche se poi queste case restano vuote”.

Ma quale futuro vede per i Balcani oggi, considerando quello che è accaduto ma soprattutto quello che potrebbe ancora accadere?

“Sono luoghi feriti nelle anime oltre che nelle case e nelle infrastrutture. La Bosnia si trova a ripartire, e ormai dalla guerra sono passati molti anni, senza una generazione di giovani bruciata dal conflitto. Mancano le risorse migliori. I giovani che studiano puntano a imparare il tedesco per andare in Germania, o comunque sognano di lavorare in Occidente; chi può cerca anche l’America. Parafrasando il titolo di un film, i Balcani sembrano sull’orlo di una crisi di nervi”.

Qual è stato il filo conduttore del viaggio? Che tipo di esperienze riferirete a Siena?

“Abbiamo visitato luoghi ma soprattutto conosciuto persone condividendo con loro il quotidiano”.

Un incontro più speciale degli altri?

“Quello con Irvin Mujcic. un giovane di Srebrenica che nell’eccidio ha perso lo zio e il padre. Del secondo non sono mai stati ritrovati i resti. Fu proprio il padre, che lavorava come interprete con i caschi blu olandesi, a obbligare la moglie a scappare insieme ai figli. Così Irvin si è salvato e una sorella è diventata scrittrice. Irvin è cresciuto e ha studiato in Val Camonica, poi ha lavorato per una commissione europea e nel 2014 è tornato a Sarajevo, nella Bosnia dove aveva perso tutto, creando un progetto di rinascita attraverso il turismo sostenibile. Accoglie gruppi di giovani che vivono insieme a lui e che lo aiutano a costruire un villaggio secondo la tradizione di un tempo. E’ un segno, un simbolo di chi non si arrende”.

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