Iniziativa dal basso per spezzare la retorica della guerra e rilanciare l’utopia concreta della pace
Forse oggi più che mai bisognerebbe cominciare a pensare a una grande campagna collettiva che metta insieme immaginazione politica, pratiche culturali e creatività diffusa. Una campagna capace di parlare di pace in modo nuovo, coinvolgente, popolare. Non per contrapporsi in astratto alla guerra, ma per proporre un’altra idea di futuro.
Si potrebbe provare a contrastare il riarmo non solo delle nazioni, ma anche delle menti. E farlo agendo in tanti luoghi diversi: nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, negli spazi pubblici, nei quartieri, nelle reti associative. Ovunque le persone vivano e si incontrino.
Potrebbe essere il momento di promuovere messaggi semplici e forti: “Non nel mio nome, non con il mio corpo”, oppure “La guerra è una profezia che si autoavvera”. Queste frasi potrebbero diventare scritte su magliette, poster, sticker da distribuire ovunque. Anche nelle scuole, dove si potrebbe immaginare la diffusione di materiali didattici, incontri, mostre e laboratori che aiutino i più giovani a comprendere le dinamiche storiche e ideologiche della guerra.
Nelle università si potrebbe puntare su seminari, lezioni aperte, momenti di riflessione collettiva: chiedersi, ad esempio, quali siano state le vere motivazioni dietro le guerre europee degli ultimi secoli. A chi sono servite? Chi ne ha pagato il prezzo?
Nei luoghi di lavoro, perché non coinvolgere i delegati sindacali? Potrebbero essere loro i primi promotori di momenti di formazione, brevi incontri informali, discussioni durante le pause. Il tema del ritorno della leva obbligatoria, ad esempio, potrebbe toccare da vicino le preoccupazioni di tanti genitori.
E poi, perché non pensare alla musica come veicolo potente di condivisione? Si potrebbe proporre a un gruppo di artisti italiani di scrivere e cantare insieme una canzone collettiva contro la guerra, come fu We Are the World. Se fosse possibile, si potrebbe anche coinvolgere musicisti da altri paesi e proporre una versione internazionale.
Le città stesse potrebbero diventare il teatro di questa campagna: si potrebbero promuovere concorsi per la realizzazione di murales visibili, permanenti, pieni di senso. In parallelo, si potrebbero organizzare letture di poesia e concerti rap, con poeti e rapper che scrivano testi nati per questa occasione.
Sui social, si potrebbe lanciare una campagna ampia: diffondere video con interviste a reduci di guerra, raccogliere testimonianze di chi ha visto da vicino cosa significa davvero il conflitto, produrre meme e brevi clip che mostrino la banalità della retorica militarista. Si potrebbe anche lanciare una campagna grafica contro l’uso estetico della simbologia militare nella moda.
Potrebbe essere d’aiuto promuovere petizioni pubbliche contro l’aumento della spesa per le armi, da far circolare nelle scuole, nei comuni, nelle università. Ogni adesione sarebbe un modo per riaprire un dibattito collettivo.
E a sostegno di tutto questo, si potrebbe immaginare una raccolta fondi permanente. Non solo per finanziare le iniziative, ma anche come veicolo di diffusione e coinvolgimento. Contribuire alla campagna potrebbe diventare un gesto visibile e condiviso: ogni donazione, anche piccola, accompagnata da una grafica, uno slogan, un contenuto che a sua volta circoli. Un crowdfunding diffuso, trasparente, con obiettivi chiari e tappe narrative, capace di far sentire ciascuno parte di un progetto comune.
Infine, si potrebbe provare a rilanciare gesti nuovi nel quotidiano. Per esempio, sostituire il saluto tradizionale con un abbraccio, come simbolo di apertura e relazione. Oppure promuovere l’uso di abiti dai colori dell’arcobaleno, segni visibili di una comunità che rifiuta l’estetica della guerra.
Disarmare i corpi e le menti non è un obiettivo facile. Ma potrebbe essere un buon punto da cui ripartire.