Tra il rischio quorum e le divisioni interne, in gioco credibilità e rappresentanza. Un voto che guarda al futuro ma inciampa nel passato
L’avvicinarsi dell’8 e 9 giugno, date dei referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza, sta rivelando una frattura profonda all’interno del Partito Democratico. A destare più di una preoccupazione è la presa di posizione della corrente riformista “Energia Popolare”, guidata da Stefano Bonaccini, che ha annunciato il proprio “no” a tre dei cinque quesiti sul Jobs Act, la riforma simbolo del governo Renzi. Nessun boicottaggio, assicurano: si andrà a votare, ma per difendere quella stagione. Una scelta che si discosta chiaramente dalla linea della segretaria Elly Schlein, che invece sostiene l’abrogazione.
Andrà tutto per il meglio? Difficile pensarlo. La confusione è palpabile. Molti lavoratori guardano disorientati alle divisioni del partito che, almeno sulla carta, dovrebbe rappresentarli.
In un periodo dove a crescere è il lavoro povero, chi è precario, chi ha un contratto a termine, chi è stato licenziato da un giorno all’altro, difficilmente distinguerà tra le varie anime interne. Più facile, invece, che si senta semplicemente lasciato solo.
L’ex ministra Paola De Micheli lo ha detto chiaramente: non voterà per cancellare il Jobs Act, perché – secondo lei – è una battaglia che guarda al passato. Anche il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha scelto l’astensione sui quesiti legati al lavoro, preferendo scommettere su una “riforma importante” che però resta, per ora, solo un’intenzione.
Matteo Renzi rivendica con orgoglio la paternità del Jobs Act, affermando che non intende cambiare idea: “Io voterò NO. E sono fiero di quelle battaglie”. E, in un certo senso, almeno su questo ha il merito della coerenza. Quella che invece oggi rischia di mancare proprio al Partito Democratico. Perché è proprio nel presente che si gioca tutto. Il rischio è che la divisione interna non resti tale – confinata a un dibattito di corrente, tra correnti – ma si trasformi in una crepa di rappresentanza.
Se il referendum dovesse fallire per il mancato raggiungimento del quorum, ma con milioni di voti a favore dell’abrogazione, la frattura diventerebbe un grido politico.
Sarebbe il segnale che il PD non è più riconosciuto, nemmeno da una parte della sua base, come il soggetto capace di interpretare il lavoro come valore, come orizzonte di dignità e di giustizia sociale.
Il tempo per ricucire è poco. Ma il dovere di interrogarsi, e di farlo subito, è grande. Perché se i lavoratori smettono di credere che qualcuno possa ancora rappresentarli politicamente, allora il problema non è più il Jobs Act. È il futuro della sinistra italiana.