Crescono gli immatricolati, ma il tasso di laureati resta basso. Famiglie, contesto sociale e prospettive lavorative condizionano il percorso accademico
Ogni anno mezzo milione di studenti consegue il diploma. Di questi, circa 328mila scelgono di proseguire con un percorso universitario. È un dato che, sulla carta, racconta un sistema in salute. E in effetti il numero degli immatricolati è in costante aumento, così come quello complessivo degli studenti iscritti: dieci anni fa erano un milione e mezzo, oggi sfiorano i due milioni. Eppure, qualcosa non torna. Il tasso di laureati nella fascia giovane della popolazione resta inchiodato sotto il 30%. Il problema, insomma, non è convincere i giovani a iscriversi, ma metterli nelle condizioni di restare, di proseguire, di concludere.
La dispersione universitaria è un fenomeno strutturale e troppo spesso sottovalutato. Non riguarda solo l’abbandono precoce, ma anche il ritardo nella conclusione degli studi, l’allungamento dei tempi di laurea, il disallineamento tra aspirazioni e offerta formativa.
Secondo l’indagine “Profilo dei diplomati e loro esiti a distanza dal diploma” di AlmaDiploma, alla base delle scelte (e dei ripensamenti) ci sono motivazioni profonde: il peso della famiglia, che spesso è determinante nella scelta dell’ateneo o del corso di laurea; l’orientamento scolastico, ancora troppo debole e disomogeneo; la qualità delle informazioni ricevute; il contesto socio-economico di partenza, che incide sulla possibilità concreta di sostenere anni di studi fuori sede; e infine – e forse soprattutto – la percezione delle prospettive lavorative, che molti ritengono incerte, se non del tutto deludenti.
Non si tratta solo di una questione culturale, ma anche materiale. Le tasse universitarie in Italia, pur non essendo tra le più alte d’Europa, non sono trascurabili, specie se si sommano ai costi della vita, degli affitti, dei trasporti. Le borse di studio restano insufficienti, e non coprono neppure tutti gli idonei. Il sistema di diritto allo studio è frammentato e spesso inefficace. E il sostegno psicologico e didattico per chi fatica, per chi sbaglia scelta, per chi attraversa momenti di crisi è ancora un’eccezione più che la norma.
A fronte di tutto questo, l’università italiana appare come una struttura accogliente in entrata, ma poco capace di accompagnare lungo il percorso. Le università che funzionano meglio sono quelle che riescono a costruire una relazione duratura con gli studenti, che non si limitano a fornire lezioni ma investono in tutoraggio, counseling, servizi, ascolto. In altre parole, che non trattano lo studente come un codice di matricola, ma come una persona in cammino.
Per affrontare davvero il problema, serve un cambio di paradigma. Serve una politica nazionale per il diritto allo studio che sia coerente, equa, stabile. Serve una maggiore connessione tra scuola superiore e università, per aiutare scelte più consapevoli. Serve una riforma della didattica che superi l’impostazione nozionistica e trasmetta capacità, metodo, fiducia. E serve anche – su questo non si può tacere – una visione del lavoro che valorizzi le competenze acquisite nei percorsi universitari, invece di svilire i titoli e favorire precarietà.
Sì, il numero di iscritti cresce. Ma non possiamo accontentarci di un dato iniziale. È come giudicare una maratona dai partecipanti alla partenza, ignorando quelli che si fermano al decimo chilometro. Il futuro dell’università italiana – e con essa, quello di un’intera generazione – si gioca tutto su quel tratto di strada che va dall’ingresso alla laurea. E oggi, più che mai, è un tratto pieno di ostacoli.