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domenica, Giugno 22, 2025

Emma Villas se ne va. E io con lei. Ma non a Firenze. Troppo facile. E poi è già affollata

Paolo Benini ringrazia Giammarco Bisogno per avergli favorito il passo di lato: “Parlare di Siena, serve solo ad allenare il sarcasmo”

E allora, caro direttore, ieri ho letto i tuoi articoli su Emma Villas. E lo dico con sincerità: mi hanno acceso un pensiero. Non un’indignazione, non un entusiasmo. Un pensiero. Che, per i tempi che corrono, è già tanto.

Perché stavolta la questione non è sportiva, né tantomeno economica. È qualcosa che va più in profondità. È simbolica. È una di quelle cartoline che ti dicono molto più di quello che c’è scritto.

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Emma Villas se ne va. E sì, dispiace davvero. Non perché fosse un’azienda perfetta, né perché tutto fosse rose e fiori. Ma perché rappresentava una delle ultime espressioni sportive di alto livello legate a questa città. Era una presenza riconoscibile, una squadra con un’identità. Qualcosa che, nel suo piccolo, teneva Siena agganciata a un mondo dove oggi, a essere onesti, non stiamo più.

Non è questione di visibilità: quella non ci manca, tra Palio, monumenti, cartoline, Google Maps e video emozionali in slow motion. Ma la visibilità non è presenza. Quello che si perde è una partecipazione diretta, una voce nei contesti sportivi nazionali. Quella voce che adesso, semplicemente, non abbiamo più.

Emma Villas non chiude. Si evolve. Si sposta. Si fonde con qualcosa di più grande. Fa quello che fa chi ha testa. E Bisogno, piaccia o meno, è uno che la testa ce l’ha. Non è un sognatore, è un imprenditore. Sa leggere i numeri, e soprattutto sa quando è il momento di levare le tende senza fare troppo rumore.

Siena non offre più rete, prospettiva, sponda. E allora, come si fa in qualsiasi contesto razionale, si cambia scenario.

Una joint venture, un progetto più ampio, più solido, più sostenibile. Logico. Ineccepibile. Perfino elegante, nella forma. Una mossa che non dovrebbe sorprendere nessuno. A meno che qualcuno non sia rimasto a una concezione ottocentesca dell’identità territoriale, con le squadre che devono restare dove sono “per amore della maglia”.

Quello che invece colpisce ancora una volta – e ormai neanche più tanto – è il silenzio. Quello delle istituzioni. Della politica. Dei vari soggetti “di riferimento”. Eccetto i ganzi di Fb. Tutti spariti. Nessuno che abbia alzato anche solo un sopracciglio. Nessuno che abbia detto: “Proviamo a parlarne, vediamo se c’è qualcosa da costruire”. Nulla. Il solito suono ovattato del disinteresse.

Eppure, la squadra ha portato Siena in alto. In A2, in Superlega, in eventi internazionali. Non si è limitata a sfruttare il nome della città: lo ha rappresentato. Lo ha tenuto in campo. Lo ha portato su strade dove Siena non cammina più. Ma questa città non lo ha capito. O forse, non lo ha proprio percepito. Come quando entri in una stanza e non vedi che la lampada è accesa.

Siena non ha mai davvero capito questo progetto. Troppo strano. Troppo professionale. Troppo strutturato. E allora è andata così. Bisogno ha fatto i conti e ha deciso. Ha guardato avanti, come fanno quelli che si muovono su logiche industriali e non sulle mezze frasi del bar sotto casa.

Anche nella comunicazione dell’uscita, qualche sottolineatura è arrivata. Allusioni, lamenti, precisazioni: un mix classico tra verità e narrazione. Magari alcune cose dette erano fondate. Magari altre servivano solo a chiudere meglio il sipario. Ma questo è il contorno. Il punto centrale è che la città è rimasta immobile.

Non so se Bisogno leggerà questo pezzo. Può anche darsi che non si ricordi di me – e francamente lo capisco -. Ma non è lui il punto. Né la squadra. Né lo sport. Il punto è questa città, che si specchia in ogni occasione in cui potrebbe crescere, e invece resta lì, ferma, come quei bambini che si impuntano davanti a un’istruzione troppo complessa.
Ti ricordi quando si diceva che Siena “possedeva una banca”? Io dissi: “No. È la banca che possiede Siena”.

E la banca l’ha posseduta davvero. L’ha nutrita, coperta, spinta in alto. Le ha dato l’illusione di essere grande.

Poi, come tutte le illusioni, è finita. E Siena è rimasta da sola. Con le sue forme, le sue abitudini, ma senza idee. Niente progettazione. Nessuna visione. Nessuna voglia di provarci davvero.

Quello che molti chiamano “declino” è semplicemente la fine dell’effetto placebo. Non è che prima eravamo vivi e adesso siamo morti. Prima sembravamo vivi. Adesso siamo come siamo. Una città che non produce valore, ma lo racconta con enfasi. Una città che non sa riconoscere i progetti veri, e allora li lascia andare.

E così, si completano opere che dovevano essere trampolini e sono diventate gradinate.
Si chiude il palazzetto – non nel senso fisico, ma nel senso simbolico – come si chiude un mobile inutilizzato: sta lì, occupa spazio, ma nessuno sa bene cosa farci.

La pista di pattinaggio? Procede. Ma non crea attorno a sé nulla. Nessun movimento. Nessuna ricaduta. Si pattina, punto. Il resto è un’altra storia, che nessuno ha voglia di scrivere.

E i campi da calcio? Le società fanno quel che possono. Ma senza uno sguardo complessivo, senza una regia. Il campo scuola è stato ristrutturato. Sì. E ora?

La parete d’arrampicata è lì, ferma, spoglia come una scultura incompiuta. Il rugby? Portato avanti con passione. Ma passione senza progetto resta un bel gesto. E basta.

Poi arriva l’illuminazione amministrativa finale, la grandezza si palesa e si espande come l’universo, sei milioni, dico 6, per la piscina in Piazza Amendola.

Nessuna analisi. Nessuna riflessione. Solo il bisogno impellente di accontentare due o tre nostalgici del cloro che fino a oggi hanno nuotato nella vasca da bagno, e di rifinanziare con amore l’eterna concessione alla Uisp.

Eh sì, direttore, perché forse – per quello che mi par di capire – la concessione dell’UISP è stata allungata, e gli abbiamo dato anche dei soldi. E quindi quella eventuale pozzanghera di Piazza d’Armi tornerà nelle mani dell’UISP. Davvero divertente. Perché qui, le cose devono andare sempre nello stesso modo. Anche se non funzionano. Soprattutto se non funzionano.

Ma non mi stupisco. E – udite udite – non mi arrabbio nemmeno. No, davvero. Ho smesso anche di arrabbiarmi. Prendo per i fondelli. Qui è facile!

Guardo tutto questo con lo sguardo sereno di chi vive in modalità aereo. Qualcuno ogni tanto mi commenta simpaticamente indicandomi come trombato livoroso. Certo la gente proietta dove non conosce e forse spera. Proiettando! Chissà!

Anche perché, se proprio vogliamo dirla tutta, molto di quello che oggi viene portato a termine, è roba che avevamo già avviato noi. Ai tempi. Quando si cercava, almeno, di far succedere le cose. Ora si completa. Si rifinisce. Si sfinisce. Si inaugura. Senza capire, senza rilanciare, senza chiedersi perché si stia facendo ciò che si fa.

E la politica altra? La politica cittadina affoga, sì. Ma non nel mare. Troppa grazia. Affoga in una pozzanghera tiepida, dove il dibattito tra Ferretti e Mazzarelli pare un talent per retoriche scolorite, un quiz per chi riesce a dire di meno con più parole.

Poi, certo, tutti fanno pace, si ricompongono, si stringono la mano, magari a qualche sagra del pesce. Forte segno identitario del territorio. Perché qui si fa così: prima ci si confronta duramente, poi si prenota un tavolo. E tutto torna nel limbo.

Le nomine? Sempre le stesse logiche. Si premia la fedeltà – non al progetto, ma alla palude -. Si scelgono persone che hanno il pregio unico di non dare fastidio. Non saprebbero.
Certo, tutte persone rispettabilissime, ma molto spesso, guardando le loro vite, ci si chiede quale guizzo possano aver mai avuto e quindi quale guizzo attendersi da loro nei loro incarichi.

Eh sì, proprio una Siena ideale! E così, caro direttore, sono arrivato alla mia personalissima conclusione. Oggi, con una chiarezza che solo certe sconfitte ti regalano, ho capito che non ha senso continuare a guardare con attenzione ciò che succede qui, perché, in realtà, non succede niente.

Devo ringraziare Bisogno, sì. Non per la scelta ma perché mi ha aiutato a mettere un punto. Non sulla città, non sulla squadra. Su di me.

Che non sono più assessore, non sono più niente, e scrivo queste cose non per salvarmi l’anima, ma per tenermi allenato il sarcasmo. Quindi ecco. Faccio come lui. Mi tolgo. Me ne vado. Ma senza proclami. Non a Firenze – troppo mainstream -. Forse in garage.

Paolo Benini

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