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giovedì, Novembre 21, 2024

Gli affreschi dimenticati di mensa Sant’Agata a Siena

Già esistente nel 1213 sul versante inferiore della balza di Fontanella, la chiesa parrocchiale di Sant’Agata scomparve con la costruzione della basilica di Sant’Agostino, quando il suo titolo passò alla grande cripta sorta in corrispondenza del transetto soprastante.

Per qualche secolo, il tempio dedicato alla martire cristiana servì da oratorio per la confraternita della Santa Croce.

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Nel primo Cinquecento l’abside e l’area presbiteriale furono interessate da un’importante campagna decorativa, che vide operanti il brioso Sodoma insieme ai meno celebri, ma non per questo scadenti, Girolamo del Pacchia, Giacomo Pacchiarotti e Bartolomeo di David.

In seguito alle soppressioni leopoldine che interessarono anche l’antica compagnia della Santa Croce, nella seconda metà dell’Ottocento, ormai sconsacrata e spogliata parzialmente degli affreschi e degli arredi liturgici, la cripta fu trasformata in palestra ad uso della polisportiva “Mens Sana”, fino agli anni sessanta del secolo scorso.

Oggi le possenti volte in laterizio ospitano una mensa universitaria sovraffollata e dalle file chilometriche, l’unica rimasta ancora attiva entro le mura della città.

Prima dei lavori di adeguamento “ginnico” degli ambienti, gli affreschi absidali furono asportati “a massello”, ossia portando via anche la muratura retrostante l’intonaco. Le prove pittoriche più belle furono acquisite per prelazione dal Comune e poi passate in Pinacoteca, lasciando il resto alle sorti di un’improvvisata vendita all’asta.

Tra gli interessati, si fece avanti lo spregiudicato conte Griccioli, che dopo l’acquisto all’incanto trasferì i dipinti nella chiesa di Sant’Eugenio al Monistero, divenuta proprietà di famiglia dopo la soppressione napoleonica, spassoso parco giochi in cui il titolato poté coltivare il suo diletto per l’orrendo pasticcio artistico, mischiando antico, falso e moderno.

Quello che non fu possibile strappare per fini venali rimase in loco, ossia eleganti paraste decorate con motivi antiquari “a candelabra”, quattro oculi prospettici con gli Evangelisti (di cui il San Marco è il più notevole della serie, essendo ancora leggibile) e un Trionfo della Croce, purtroppo mascherato da molteplici ridipinture; fragili testimonianze che hanno subito il destino forse più tragico, ovvero l’incuria incondizionata.

Attualmente, gli affreschi rimasti sul posto versano in cattive condizioni di conservazione, vessati da efflorescenze saline causate dall’umidità ambientale e dalle infiltrazioni piovane, screpolature e pericolosi sollevamenti della pasta cromatica in prossimità delle crepe murarie, annerimenti dovuti a fumi, grassi e polveri provenienti dagli apparecchi industriali per le preparazioni gastronomiche.

Non bastasse, la superficie pittorica è in larga parte punteggiata da schizzi di bianco calcinato, esito curioso di un intervento “action painting” alla volta a botte del soffitto, praticato da un anonimo imbianchino con velleità –diremmo noi– da Pollock combina guai.

Contrari a ritenere il contesto preso in esame come un capolavoro dell’espressionismo astratto senese, urgono opportuni interventi di restauro e salvaguardia, atti a restituire al presente e a consegnare al futuro una testimonianza della storia urbana, seppur minore e di scarsa levatura, che non riguarda solo i locali residenti, ma l’intera storia della collettività.

Non abbiamo più il permesso di operare una selezione gerarchica tra ciò che appare esteticamente bello –pertanto notevole– e l’esatto opposto, anche se la “meraviglia” millantata dal Ministero della Cultura della corrente legislatura sembra far riemergere vecchi vizietti crociani, in piena coerenza con l’involuzione culturale e civile di cui ne ha fatto fiera ma vergognosa bandiera.

Per concludere, è conveniente ribadire come il recupero dei complessi storici e la conseguente rideterminazione semantica o riconversione degli stessi in luoghi sociali, civici, collettivi sia un’operazione piuttosto complessa e delicata, che può dar adito a risultati virtuosi (rappresentati da molti buoni esempi di riuscita archeologia industriale, in Italia o all’estero) oppure a prodotti disfunzionali e alla lunga fallimentari, come nel caso di mensa Sant’Agata, incapace di far coesistere funzione pubblica e dovere conservativo.

Un problema non di poco conto a cui l’amministrazione dovrebbe provvedere.

Francesco Salerno

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