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mercoledì, Dicembre 11, 2024

L’Abbazia eretta per celebrare un cavaliere che scelse la fede

In memoria di Galgano, crebbe fiorente per poi venire abbandonata e commercializzata a pezzi

Continuiamo il nostro viaggio fra le perle nascoste (e chiacchierone!) della nostra Italia. Questa volta senza allontanarci troppo. Oggi, infatti, a parlare con noi è l’Abbazia di San Galgano, a due passi da Siena, nella campagna di Chiusdino. E’ un’abbazia cistercense, una fra le più conosciute soprattutto per la sua peculiarità: l’essere senza un tetto.

E’ un edificio molto particolare, che ha vissuto molte vite. Addirittura, con la sconsacrazione avvenuta dopo il crollo del tetto e con la decisione di non ricostruirlo più, fu trasformata dai monaci in stalla. 

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La sua esistenza è legata alla vita di San Galgano che aveva deciso di isolarsi per immergersi nella fede proprio in quelle campagne. Fu il Vescovo di Volterra nel 1185 a voler costruire questo grande complesso monastico cistercense in onore del Santo.

Agli inizi del 1200 si formò la comunità monastica e verso la fine dello stesso secolo l’abbazia divenne una delle più ricche e fiorenti comunità d’Italia. Fu poi la peste del 1348 a dare il via al suo declino. Ma il suo fascino l’ha portata a risorgere dalle sue ceneri, come un’araba fenice, e l’ha resa nota in tutto il mondo anche per il particolarismo eremo che è parte integrante del sito, la Rotonda di Montesiepi, dove si trova un grande sasso con l’elsa di una spada conficcata nel mezzo. La storia narra, lasciando trasparire evidenti somiglianze con il mito di Artù, che Galgano, quando decise di convertirsi, avesse conficcato la lama della sua spada proprio in questo sasso per trasformarla in una croce.

Ma sentiamo la vita di questo luogo pieno di energie molto forti raccontata proprio dalle mura dell’Abbazia. Sentiamo la sua voce.

Come ti racconteresti al mondo….

“Le mie mura slanciate si protendono verso il blu profondo e terso del cielo, sospese, come braccia amanti, anelanti ad un incontro impossibile tra Terra e Cielo, tra tangibile e immateriale”.

Sì, e poi?

“Quando giunse quassù un giovane uomo, i profondi occhi color verde muschio, cerchiati dall’autunnale malinconia di chi troppo ha visto, il saio sdrucito da penitente, che non celava le spalle robuste che, insieme al passo elastico e al portamento fiero tradiva una lunga e assidua consuetudine con l’esercizio delle armi, non una pietra di me era stata posta. Un luogo immemore del tempo e dell’uomo, profumato di erbe selvatiche, il cui silenzio estatico era interrotto dallo scalpiccio quasi immateriale, quasi discreto, di qualche essere selvatico. Nello zampillio delle acque vergini di una piccola sorgente si specchiava di tanto in tanto il volo solitario e circolare di un gheppio…”

“Anelava Galgano – continua -, questo il nome del giovane, che la sua Fede, verde come un tenero virgulto, ma salda come la spada che occhieggiava da sotto la stoffa ruvida del suo umile vestimento, volasse alta e lieve, come quelle piume guidate dalla fresca brezza decembrina. Dovrei parlare di me, lo so, ma sarebbe un racconto sterile, monco, senza la narrazione delle contingenze che portarono alla mia esistenza. Galgano, ormai lo avrete intuito, era un cavaliere, o meglio, lo era stato finché l’esuberanza giovanile, che lo faceva sentire padrone del mondo e avido di vita, non era sfumata nella dolce amara consapevolezza che non era quella l’esistenza per cui era venuto al mondo, una notte d’estate del 1148, in un castello di cui non vi è più traccia, poco distante da qui, a Chiusdino”.

“Con la stessa veemenza con cui si era lasciato irretire dalle effimere attrazioni terrene – ci sussurrano le pietre -, si arrese a Dio, fulgore di cento spade. Il suo superbo mantello, divenne saio, la sua spada, che aveva bevuto il sangue di infinite contese, infissa nella terra rocciosa, inesorabile come una lastra tombale, divenne croce. Da cavaliere del vescovo di Volterra divenne cavaliere di Dio. Visioni, di sapore quasi onirico, lo condussero qui, a Montesiepi, dove San Michele Arcangelo, Maria e i dodici Apostoli, gli indicarono la via della penitenza. Ho sentito dire che, nella pinacoteca della vicina Siena si conserva un antico bassorilievo marmoreo raffigurante Galgano che infigge la sua spada, e con lei il suo passato, nella dura pietra. È proprio così che lo ricordo: le sopracciglia corrusche, la mano salda per l’ultima volta intorno all’elsa, i capelli rifulgenti come filigrana nel pulviscolo dorato del tramonto, lo sguardo rivolto verso l’alba nascente della sua anima. E così, pietra su pietra, stillando sudore, elevò un eremo dove, nella pace della Natura, genuflesso, poteva rendere grazie al suo Signore ritrovato. Oltre la serenità del romitorio, i tempi erano tumultuosi: infuriava la lotta per le investiture e nonostante la “magna comitissa”, la contessa longobarda Matilde di Canossa, fosse morta ormai da tantissimi anni, lasciando i suoi beni alla Chiesa, l’estenuante braccio di ferro, tra Impero e Papato continuava. Una mattina di fine novembre, mentre iniziava a fioccheggiare la prima neve di un incipiente inverno, Galgano si addormentò nella Luce, consegnando la sua meteora terrena alla Storia e alla Leggenda. Era il 1181: ad Assisi nasceva Francesco di Pietro Bernardone. Sulla tomba di Galgano fu eretta una cappella circolare”.

Abbiamo capito che sei molto legata a Galgano, che la tua esistenza è frutto della sua vita, ma siamo curiose. Parlaci proprio di te, della tua costruzione, delle tue trasformazioni…

“Tempo dopo la santificazione di Galgano, giunse, su chiamata del vescovo di Volterra, un gruppo di monaci cistercensi e, nel 1224, venne posta la mia prima pietra. Ero davvero una costruzione maestosa, con la mia pianta a croce latina, le mura possenti eppure percorse da uno slancio ascensionale vertiginoso. Appena giunti, i cistercensi si dedicarono, alacremente, alla bonifica dei luoghi circostanti, anche per facilitare le comunicazioni con il mondo esterno. Il fiume Merse divenne una preziosa fonte di energia idrica: si pensò finanche ad un progetto per convogliarne le acque fino a Siena. Intorno a me, vedevo muoversi la comunità monastica, operosa, prodigarsi per rendermi sempre più produttiva, ricca ed affermata. E ci riuscirono! Divenni fulcro di cultura e ricchezza, grazie a donazioni e alla protezione di potenti personalità, laiche e religiose, tra cui Federico II, tanto che fui, a metà del XIII secolo, una delle abbazie più potenti della Toscana. Fu proprio Federico a concedere, tra i vari privilegi quello di batter moneta. Un’abbazia fiorente, all’apice del potere… ma niente dura per sempre, soprattutto le contingenze umane”.

Cosa accadde? Come cadesti in rovina?

“La carestia del 1328, che sconvolse l’Italia, in particolare Toscana e regioni settentrionali, spianò la strada alla devastante epidemia di peste del 1348 ed al mio iniziale, rovinoso, declino. La sua ombra nera come la disperazione, che decimò la popolazione europea, non mancò di fare vittime anche tra le mie mura, la cui protettiva possanza nulla poté contro il vorace morbo. Così, tacquero i canti gregoriani che avevano percorso le mie navate come voci di angeli prigionieri della malinconia, così come lo scricchiolio delle piume d’oca sulle candide pergamene nei luminosi scriptori profumati di bacche di sambuco, tacquero le attività che mi avevano reso fucina di edificanti opere quotidiane. Il greve silenzio si impadronì di tutto ciò che era stato Vita, sotto il gelido soffio di una Morte che non aveva esitato né davanti alla gioventù fiduciosa dei novizi, né davanti al venerando occhio glauco dei confratelli più anziani. Parte dei monaci superstiti decisero di abbandonare questo luogo, riparando a Siena. Non mi fu risparmiata l’onta, ben due volte, della mano sacrilega dei soldati di ventura di quel Giovanni, Acuto nella sua rapacità, che fecero delle mie sale, in cui l’ingegno umano aveva superato se stesso, magnificando Dio nella dura pietra, il loro bivacco. Mani barbare non avrebbero potuto fare peggio, ghermendo, nel contado, beni e vite. Con il tempo precipitai sempre più nell’incuria. Nel 1500, destino comune a molte abbazie, fui affidata a una serie di abati commendatari, uno dei quali, horribile auditu, fece rimuovere, per venderla, la copertura in piombo del mio tetto. Nel XVIII sec l’abbandono raggiunse l’apice: nel 1786, il campanile, orgoglio della struttura, colpito da un fulmine, rovinò su sé stesso. Rimase intatta la campana di bronzo del 1300, i cui austeri ritocchi erano riecheggiati, per secoli, nella valle, ma per poco, poiché fu venduta per essere fusa. Fu in quel periodo che venni adibita a fonderia. Non posso dire di aver avuto una vita monotona: sempre nel XVIII sec fui perfino fattoria, ovviamente dopo essere stata sconsacrata, e cava di materiale da costruzione”.

Ma il tuo valore, la tua energia ancora oggi sono conosciuti in tutto il mondo….come sei rinata dalle tue ceneri?

“Nel 1924, dopo anni di dimenticanza, qualcuno si ricordò della mia importanza storica e del mio essere, nonostante le vestigia polverose, uno dei massimi esempi di gotico cistercense in Italia. Si procedette, così, ad un restauro conservativo, consistente nella valorizzazione e nel restauro di ciò che era rimasto, senza fantasiose ricostruzioni. Da allora, frotte di turisti percorrono il lungo viale, ombreggiato da cipressi, per ammirare la cattedrale “senza tetto”, per poi risalire fino al semplice eremo, dove “la spada nella roccia” continua ad attrarre, da secoli, fedeli e curiosi. Dopo 900 anni, sono ancora qua sprezzante del vilipendio del Tempo e dell’Uomo, preghiera gotica di pietra, tangibile testimonianza che il Medioevo non fu periodo oscuro, ma momento storico di grandi ingegni e grande spiritualità. La mancanza della copertura, invece che sminuirmi, esalta la spoglia magnificenza dei miei elementi: i saldi contrafforti, le colonne binate, le volte dalle slanciate crociere, la pianta la cui enorme croce latina sembra contemplare il cielo e le sue nuvole che corrono veloci. In me, un tempo riccamente decorata, potente, si fa materia la parabola di un giovane uomo che, in una notte di Natale di tanti secoli fa, si fece padrone del suo Destino, abbracciando la vera Fede che non ha bisogno del superfluo. Nelle mattine di primavera, quando l’azzurro cobalto del cielo occhieggia dalle mie monofore e dall’occhio ciclopico del grande rosone, si realizza la mistica unione tra Cielo e Terra, tra Umano e Divino. É un tripudio di Luce e Vita. La mia navata si riempie di un verde manto erboso, costellato da timidi fiorì di campo, figli del vento: non ho mai avuto pavimento più bello!”

Salutiamo l’Abbazia, grate del suo racconto. La salutiamo portandoci a casa il suo insegnamento. Nessuna vicenda umana, nessuna contingenza per quanto dolorosa e distruttiva può spengere la scintilla che si accende quando l’Umano e il Divino trovano un punto di contatto e si fondono in una commistione potente.

Così come è successo quando Galgano, arrivando in questa campagna dolce e isolata, decise di cambiare vita conficcando la sua spada nella roccia. La sua storia è l’energia che ha permesso a queste splendide mura di essere erette. E che ha fatto sì che, nonostante le tempeste delle vicende e del tempo, ancora oggi continuino ad attrarre e ad affascinare tantissime persone. Nel suo contrasto: possanza di altissime mura che non ci separano dal cielo, immense navate bagnate dal sole e dalla pioggia che fanno crescere sui loro pavimenti erba e fiori. Commistione di Uomo e Natura.

In poche parole: tripudio di Luce e Vita.

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