Post del 16 novembre
Vi parlo di un altro libro, cioè ve lo consiglio e anche in questo caso (se il consiglio lo vorrete seguire) non vi deluderà.
Lo ha scritto Fabrizio Barca assieme a Fulvio Lorefice che lo interpella con domande intelligenti e colte.
Il titolo è: “Disuguaglianze Conflitto Sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è” (Donzelli 2021).
Bon, forse non è un caso che ve ne parli il giorno dopo avere ricordato quelle tre giornate di Bologna, giusto tre anni fa.
Fabrizio fu uno degli artefici e dei protagonisti di quell’avventura (a proposito, grazie per i commenti che avete fatto, comprensivi del ricordo di chi c’era).
E in questo dialogo diversi degli spunti di allora (compresa la sua bellissima relazione del sabato mattina) tornano con puntualità.
Come per il saggio di Massimo Florio, è complicato riassumere decine e decine di pagine.
Facciamo che ne estraggo singole frasi sperando, come nell’altro caso, che siano utili (e sufficienti) a prendere l’intero libro e farlo almeno un po’ vostro (e nostro).
Allora:
· Due fattori sono comuni oggi a tutto l’Occidente: la presa d’atto di una non sostenibilità del rapporto che abbiamo stabilito con l’ecosistema e l’inversione che prosegue dagli anni ‘80 della riduzione delle disuguaglianze che aveva caratterizzato la seconda metà del vecchio secolo.
In Occidente sono aumentate le disuguaglianze nel riconoscimento, cioè le differenze nella misura in cui la nostra dignità, i nostri valori e abilità e la nostra capacità di contribuire al bene comune sono riconosciuti dagli altri.
In questo senso ad avere pagato il prezzo maggiore sono proprio le figure che nei primi trent’anni dopo la seconda guerra mondiale avevano assunto un ruolo centrale: il lavoro operaio, gli insegnanti, gli abitanti delle cosiddette aree interne. La pandemia ha accentuato gli effetti di queste nuove discriminazioni.
· Punto di partenza è questo: non si tratta di disuguaglianze inevitabili, non sono il prezzo obbligato alla globalizzazione e all’innovazione tecnologica, tantomeno sono il frutto della società liquida. Si tratta di precise scelte compiute di fronte a questi cambiamenti.
Certo, la riduzione della distanza fra persone e luoghi e la rimozione di ostacoli al commercio, favorendo l’uscita della povertà di centinaia di milioni di persone soprattutto in Asia, ha accresciuto l’offerta di lavoro competitiva con quella dell’Occidente erodendone il potere contrattuale: ma quella è una sfida giusta e affrontabile modificando metodo e obiettivi della nostra organizzazione produttiva e di vita, a far perdere quella sfida è stata la scelta di non mettere in discussione quel metodo e quegli obiettivi, di rendere completamente incontrollata la mobilità dei capitali smontando l’accordo internazionale costruito con intelligenza dopo la seconda guerra mondiale e contemporaneamente con la scelta di erodere la legittimità e il potere dei sindacati del lavoro.
· Altrettanto certo è che la transizione digitale è stata usata finora non solo per accelerare la ricerca scientifica, ma anche per realizzare una concentrazione di controllo sulla conoscenza che non ha precedenti nella storia e per porre in atto attraverso le modalità di uso degli algoritmi discriminazioni nel lavoro e nel consumo.
Queste conseguenze sono la scelta di affidare a grandi società private il governo delle piattaforme digitali e le gerarchie di valori che esse adottano, rinunciando a orientare l’uso della nuova tecnologia e rinunciando a mettere in discussione e facendone oggetto di pubblico confronto le previsioni o decisioni degli algoritmi di apprendimento automatico.
In sintesi, l’aumento delle disuguaglianze è sempre il frutto di scelte politiche e culturali; in particolare sono il frutto del cambiamento tecnologico, della trasformazione digitale, della riapertura dello squilibrio nel rapporto di potere tra lavoro e capitale, nella regressione dei processi di transizione generazionale per cui siamo ritornati a una dipendenza del potere del singolo dall’eredità conseguita dai suoi genitori.
· Tutto questo contribuisce all’indebolirsi della democrazia, l’impoverimento del pubblico dibattito con scelte politiche che sempre più spesso vengono dissimulate come scelte tecniche, inevitabili, come se non esistessero alternative.
La grande scelta è tra pensare di sanare questi limiti attraverso un’opera di redistribuzione a valle, oppure se non bisogna aggredire i meccanismi pre-distributivi a monte.
Vanno modificate le modalità di formazione e accumulazione della ricchezza e della conoscenza e gli equilibri di potere che le governano: se non si cambia la loro direzione i fiumi riportano continuamente reddito, ricchezza e controllo della conoscenza lì dove erano già.
Questo perché aldilà dell’esito distributivo, per la dignità e l’uguaglianza delle persone è decisiva la natura del ruolo e delle relazioni che hanno nel processo produttivo, nella definizione dei tempi e modi di vita e nell’interazione con l’ambiente.
· Il vero limite della socialdemocrazia è stato su questo terreno: ha giocato le sue carte migliori nella costruzione di servizi universali di tutela sociale che riducono le disuguaglianze, ha sperimentato forme di governo partecipato a livello territoriale e anche promosso la democratizzazione del governo societario e del rapporto fra lavoro e detentori del capitale. Ma questo impegno non si è tradotto in un trasferimento di sapere e potere ai più vulnerabili che costruisce nuovi equilibri ed è invece regredito nel ricorso a strumenti di natura compensativa (sussidi di disoccupazione, di sostegno ai più vulnerabili, trasferimenti alle imprese, aiuti alle organizzazioni sociali).
In generale si è rinunciato a entrare nei meccanismi di formazione della ricchezza e delle relazioni umane che producono quelle ferite a persone e territori: la logica è stata quella di prelevare attraverso l’imposizione fiscale una parte dei profitti e delle rendite per usarla a fini compensativi, ma un sistema limitato a questo non poteva reggere perché nel frattempo le disuguaglianze venivano continuamente riprodotte.
· Con la svolta neoliberista il merito subisce una torsione patrimonialista: merito diventa avere realizzato elevati profitti, il livello della remunerazione che ottieni dal mercato, la remunerazione del tuo talento diventano il segno del tuo merito. Con il neoliberismo la società si riduce in modo quasi grottesco a mercato più controllo. Non c’è più società e non bisogna più convincere nessuno che lo squilibrio di potere fra chi controlla anche il capitale e chi controlla solo il lavoro serve allo sviluppo.
Tant’è che la tesi diventa: il capitalismo provoca disuguaglianze, ma queste sono il costo inevitabile della crescita.
Questa torsione ha incentivato il parassitismo, ha eroso la distinzione tra profitto e rendita: è stato così colpito il volto produttivo del capitalismo ed esaltato il capitalismo della rendita, questa torsione parassitaria è la vera responsabile del rallentamento della crescita, della caduta della produttività, dell’impoverimento di una parte della popolazione e anche del venir meno del consenso al capitalismo e alla sua missione storica, è un fattore autolesionistico per il capitalismo.
· Per tornare alla politica la sinistra deve far saltare il meccanismo della non rappresentanza, la strada è la ricostruzione di un soggetto politico che riprende la guida del processo decisionale, reintermediando le persone.
Serve un nuovo pensiero oltre la socialdemocrazia del ‘900 e una nuova tensione tra classe, genere, ambiente e etnia. Costruendo un blocco sociale moderno e piegando la trasformazione digitale al servizio di questo blocco. Molto difficile, ma di qua bisogna passare.
Fine.
Spero vi sia venuta la voglia di leggere il resto.
Buona serata e un abbraccio