Dal mito della resilienza alla fragilità nascosta: il lato oscuro dello sport professionistico
Il ritiro improvviso nella finale di Cincinnati mi ha sollecitato pensieri che magari esulano dal caso specifico, al momento. Lo sport viene continuamente e paradassolmente usato come simbolo di salute e longevità: atleti che incarnano equilibrio, resilienza, vitalità. Ma la realtà dei circuiti professionistici racconta altro. Il ritiro di Jannik Sinner a Cincinnati è l’ennesimo segnale di un sistema che logora i suoi protagonisti. Non si tratta più solo di infortuni fisici: sempre più spesso sono le cadute psicologiche, i blackout emotivi, i cali improvvisi a determinare stop e ritiri.
I dati scientifici parlano chiaro. Una ricerca pubblicata dal British Journal of Sports Medicine evidenzia che circa il 35% degli atleti d’élite presenta sintomi clinicamente rilevanti di ansia, depressione o burnout. Una meta-analisi del 2024 ha mostrato che gli atleti ritirati hanno un rischio più che doppio di sviluppare ansia (PR 2.08) e depressione (PR 2.58) rispetto alla popolazione generale. Una review internazionale del 2025 ha messo in luce che l’affaticamento mentale ha un impatto diretto non solo sulla performance, ma sul benessere complessivo dell’atleta. Non è quindi un’impressione: i numeri confermano che il logoramento psicologico è un fenomeno sistemico.
Il successo stesso diventa una trappola. Come una droga, produce picchi di gratificazione che l’atleta è costretto a inseguire senza sosta, generando vuoti e cadute sempre più profonde. Non sorprende allora che alcuni dei casi più eclatanti degli ultimi anni siano arrivati dopo i momenti di massima gloria: Naomi Osaka, sopraffatta dalla pressione; Simone Biles, costretta a fermarsi alle Olimpiadi; Dominic Thiem, incapace di ritrovare motivazione dopo i successi.
E negli ultimi mesi il fenomeno si è manifestato con ancora più forza in giovani che avrebbero dovuto avere una carriera lunga davanti a sé. La nuotatrice paraguaiana Luana Alonso ha annunciato il ritiro a soli vent’anni, appena dopo i Giochi di Parigi. La canadese Rebecca Smith, due volte olimpica, a ventiquattro anni ha deciso di lasciare per cercare equilibrio altrove. La connazionale Sydney Pickrem, tre volte olimpionica, ha raccontato di essere stata travolta da ansia debilitante e depressione, tanto da non riconoscersi più come persona oltre che come atleta. Nel nuoto artistico, Giorgio Minisini, campione del mondo, ha scelto di fermarsi spiegando che “non era più disposto a farsi male per continuare”. Persino campionesse affermate come Cate Campbell e Kaylee McKeown hanno descritto momenti di stanchezza emotiva estrema, con la sensazione concreta di non riuscire a reggere ancora.
Questi non sono casi isolati né segni di fragilità individuale. Sono l’espressione di un modello che spinge oltre i limiti e che, con il pretesto di promuovere salute, produce invece logoramento rispondendo al mercato. La scienza ci dice che il rischio psicologico negli atleti è reale, diffuso e misurabile. Continuare a ignorarlo significa chiudere gli occhi davanti a una patologia di sistema.
La conclusione non è che lo sport debba “imparare a fermarsi” – perché non lo farà. È che servono strutture serie, con professionisti qualificati della salute mentale, che valutino costantemente la condizione psicologica degli atleti, dagli esordienti agli adulti, e non figure improvvisate che si limitano a fornire slogan motivazionali. Senza questa rete concreta di tutela, ogni ritiro come quello di Sinner sarà trattato come una sorpresa, quando invece, magari non nel suo caso, è soltanto la logica conseguenza di un sistema che consuma le persone mentre finge di celebrarle.
“non ero più capace di distinguere tra Sydney la nuotatrice, la compagna di squadra, la leader… e Sydney la persona” Sydney Pikrem