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martedì, Maggio 6, 2025

“Cultura Maranza”: oltre le contrapposizioni politiche, servono visione e coraggio

Paolo Benini, psichiatra e psicologo, consiglia di uscire dalle secche della propaganda politica per dare vita a piano e investimenti veri

Il recente dibattito senese sulla cosiddetta “cultura maranza” ha messo in scena l’ennesimo balletto politico che sembra più finalizzato a marcare identità di partito che a comprendere e affrontare un fenomeno sociale complesso. Fratelli d’Italia ha lanciato un’iniziativa con raccolta firme, una mossa che appare più come dimostrazione di presenza e operatività sul territorio che come risposta risolutiva. Dall’altra parte, l’intervento di Simone Vigni del Partito Democratico, pur riconoscendo alcuni spunti interessanti dell’iniziativa di FDI, si rifugia nei consueti riferimenti all’inclusione, alla comprensione, alla necessità di interventi strutturati.

Il risultato è una polarizzazione sterile: da un lato, l’appello costante alla repressione e alla sicurezza; dall’altro, la fiducia in principi nebulosi e in un’associazionismo che spesso si dimostra inefficace. I buoni principi faticano a tradursi in azioni concrete perchè poi di fatto ci si limita all’intervista.

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Il fenomeno “maranza” è stato poi localizzato da entrambi i fronti al solo territorio nostrano, ma si tratta in realtà di una dinamica sociale molto più ampia, che attraversa diverse aree del Paese e che la letteratura sociologica e psicologica descrive da tempo. Le gang giovanili non sono una novità storica: già nell’antica Roma si parlava di gruppi organizzati di giovani violenti, e nel secondo dopoguerra italiano furono numerosi i casi di bande urbane. Ancora negli anni più recenti, l’esplosione del fenomeno dei “paninari” e delle “baby gang” nelle metropoli italiane mostrava una costante: giovani aggregati in cerca di identità, riconoscimento e appartenenza.

Queste dinamiche non sono emergenze locali, ma espressioni cicliche e strutturali di processi cognitivi e relazionali interrotti. Le amministrazioni locali, in questo contesto, raramente riescono ad andare oltre misure di facciata: politiche sociali spesso inefficaci, eventi estemporanei, e slogan incapaci di toccare il cuore del problema. Le firme raccolte a Siena sono solo l’ennesima manifestazione di un attivismo inutile, se vogliamo dirla tutta.

Dal punto di vista cognitivista, di cui chi scrive — psichiatra e psicologo clinico — è profondo conoscitore, è necessario leggere questi comportamenti come manifestazioni di un vuoto epistemologico: l’aggregazione in gang colma la solitudine percettiva ed esistenziale di fasce di età specifiche, prive e alla ricerca di riferimenti simbolici. Va però specificato che questa fragilità — questa “solitudine epistemologica” — è una condizione parafisiologica comune a tutti gli adolescenti. L’adolescenza è, per sua natura, una fase di crisi identitaria, di discontinuità cognitiva, di esplorazione emotiva. In tal senso, non sorprende che proprio in questo periodo della vita emergano con forza dinamiche di appartenenza e di identificazione di gruppo.

Ciò che cambia è il contesto: alcuni giovani, sovraccaricati da ulteriori problematiche — marginalità sociale, abbandono scolastico, carenze affettive — si aggregano con scopi illeciti e violenti. I social network, certi modelli musicali e una cultura dell’assuefazione alla violenza agiscono come concime: forniscono significati immediati, modelli imitabili, cornici d’identità pseudo-coerenti ma profondamente disfunzionali.

Servono misure forti, ma soprattutto intelligenti. La repressione, laddove necessaria, è una risposta immediata ed indispensabile. Mentre parliamo di paranza non dimenticate che ci sono professori percossi da alunni. La repressione deve essere accompagnata da un piano nazionale serio, organico e strutturato. Tra gli interventi, una misura chiave dev’essere l’iperscolarizzazione obbligatoria: un dispositivo interdittivo e preventivo che tenga i ragazzi dentro un sistema educativo riformato, articolato, capace di riconoscere e intercettare i segnali di disagio prima che esplodano. Non si tratta solo di più scuola, ma anche di una scuola diversa: integrata con i territori, permeabile ai bisogni reali, affiancata da professionisti della salute mentale e dell’educazione e con la cultura della disciplina e dell’autodisciplina. Un esempio concreto viene dagli Stati Uniti, dove l’esperienza della Harlem Children’s Zone, descritta nel libro “Il potere del carattere” di Paul Tough, ha mostrato come un’intensificazione educativa strutturata e continua — orari prolungati, programmi estivi obbligatori, scuola anche il sabato — possa diventare una vera alternativa alla strada per giovani a rischio.

Non voglio apparire come un sognatore. Mi rendo perfettamente conto della difficoltà di costruire una politica nazionale organica su questi temi, anche perché proprio in quel contesto si amplificano le stesse divisioni che oggi vediamo riflesse nei piccoli comuni. L’altro punto è che ovviamente queste cose costano finanziamenti importanti e in genere la politica taglia piuttosto che guardare a quanto spende di più per la conseguenza dei tagli. Ma la verità è che la politica, così com’è, appare largamente insufficiente a guidare processi complessi come quello che riguarda il mondo giovanile.

Un simile piano non può prescindere da politiche sull’immigrazione, sul contrasto alla marginalità, sull’integrazione culturale. E deve includere misure interdittive e fortemente rieducative, anche restrittive, quando necessario.

Vale la pena ricordare, a questo punto, l’ammonimento di Karl Popper nel suo “paradosso della tolleranza”: “Se estendiamo la tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo preparati a difendere una società tollerante contro l’assalto degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”. Oggi, certe idee lasse e generaliste sulla libertà conducono esattamente agli estremi che Popper paventava: la debolezza dello Stato e la rinuncia al limite come principio educativo aprono il varco a culture violente che si nutrono proprio dell’indifferenza e della passività collettiva.

La vera preoccupazione nasce quando la politica non riesce a integrare approcci diversi e si rifugia in rigide contrapposizioni ideologiche. Così facendo, non solo si perde l’occasione di intervenire davvero, ma si finisce per alimentare il fenomeno stesso, distraendo l’opinione pubblica e parlando d’altro. E mentre le forze politiche si confrontano in un gioco a somma zero, i giovani continuano a cercare riferimenti altrove.

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