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lunedì, Maggio 12, 2025

L’addio al PCI a Siena: un racconto di storia orale

1984-1994: viaggio nella memoria tra percezioni e vissuti locali. Intervista al ricercatore storico Luca Santangelo

Ok Luca, grazie mille per essere qui oggi. La tua tesi, con quel titolo potente che riprende Marx, “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, promette davvero di scavare a fondo in un momento cruciale per la storia politica italiana, concentrandosi su come la fine del PCI è stata vissuta qui nella provincia di Siena tra l’84 e il ’94. La cosa che più curiosa è come tu abbia scelto di utilizzare anche la storia orale, dando voce direttamente alle persone che hanno vissuto quei cambiamenti qui sul territorio.

Vorrei farti qualche domanda per capire meglio il tuo lavoro e, soprattutto, il contributo che le voci dei senesi hanno portato alla tua ricerca...

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“Ivano, grazie a te per l’interesse nei confronti della mia ricerca e per avermi invitato a parlarne qui a Siena Post. Prima di iniziare, colgo l’occasione per ringraziare te e tutte/i coloro che hanno partecipato nelle interviste, nei consigli, nelle indicazioni archivistiche. Nel farmi scoprire e raccontare l’ASMOS e il PCI senese, hanno collaborato insieme a me a fare questo lavoro di ricerca, iniziato nell’inverno del 2024. Come scrive Alessandro Portelli, l’intervista per la storia orale non è semplicemente una “raccolta di fonti”, in cui si va a condensare il vissuto di individui, di una collettività come se fosse un dato immutabile, ma è un processo collaborativo: una connessione dialogica tra intervistato ed intervistatore per creare un prodotto della memoria collettivo. Su queste basi si è mosso il mio lavoro di ricerca e per questo mi sento di ringraziare tutte/i, prima di addentrarci nei temi della mia ricerca”.

Qual è stata la motivazione principale che ti ha spinto a concentrarti sulla provincia di Siena per analizzare la fine del PCI? C’erano specificità locali che ritenevi importanti esplorare?

“Pur essendo le tue domande brevi, sintetiche e vanno dritte al punto, per spiegarmi bene ho bisogno di fare qualche premessa. Dunque: per una serie di relazioni e connessioni familiari, frequento Siena da circa vent’anni. Pur non essendo inserito all’interno della vita collettiva della provincia e della città, ho sempre ricevuto notizie e suggestioni da Siena, a tal punto che ero vicinissimo al trasferirmi per iscrivermi e frequentare qui l’università. Per queste ragioni, soprattutto negli ultimi cinque anni, passo parte della mia vita a Siena. Nel corso di questi cinque anni ho concluso un lavoro di ricerca per la mia precedente tesi di laurea sulla costruzione della “macchina mitologica” della bonifica nella città di Latina nel corso dell’età repubblicana, a cui ho continuato a lavorare in questi ultimi mesi per poi pubblicarla nel dicembre 2024 per la Casa dell’Architettura edizioni. All’interno di questo lavoro su Latina, la città dove sono nato e cresciuto, anche in questo caso nato da domande e esigenze collettive, il tema dell’identità è stato al centro delle riflessioni non solo della ricerca, ma anche dei processi politici che ho attraversato: come nasce e si struttura un processo di “costruzione identitaria” talmente forte che, come nel caso di Latina, rimuove nel discorso pubblico le vicende più recenti della storia della città, celebrando, glorificando e collegandosi idealmente al “monumento a grande scala” Littoria, uno dei palcoscenici della propaganda fascista”.

“Esempio concreto di questo – continua Luca Santangelo – è il dibattito sul mantenimento della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, su cui tutti gli schieramenti politici erano favorevoli al mantenimento per un “legame storico e identitario”. Eppure nel 2023, il gruppo di ricerca della Casa dell’Architettura, ha “scoperto” che tale cittadinanza onoraria è stata rimossa dal primo sindaco dell’Italia repubblicana, Fernando Bassoli del Partito Repubblicano, alla fine del 1946, che ha guidato una giunta composta da PRI, PSI e PCI.
Il motivo per cui si è sviluppato questo “vuoto di memoria” nel discorso pubblico cittadino è stato oggetto di interesse dell’analisi di “Dalla palude all’atomo”. Questi temi, domande e riflessioni sono nate all’interno di processi politici collettivi, che al contrario, stavano invece subendo un processo inverso: la crisi dell’identità politica, la dissoluzione o evaporazione delle culture politiche nel XXI secolo. Come ho scritto nell’introduzione, pur non avendo mai partecipato o militato in formazioni direttamente legate alla storia del PCI, ho vissuto in contesti in cui la frammentazione, le divisioni, le continue trasformazioni dei linguaggi politici, hanno attraversato anche i collettivi, i sindacati studenteschi e i movimenti di cui ho fatto parte nella provincia di Latina. Questi concetti di evaporazione e dissoluzioni sono emersi in maniera ancora più dirompenti durante la pandemia da Covid19, periodo durante il quale ho vissuto esperienze di lutti familiari, che hanno amplificato ancora di più la sensazione di “fine” che sentivo forte in ogni singolo ambito della vita sociale e politica. Riprendendo proprio le parole dell’introduzione, la ricerca nasce come propria conseguenza/elaborazione ai lutti familiari e sociali da me vissuti nel corso dei miei ultimi anni di percorso universitario, riassunti nei miei due lavori prodotti per il conseguimento per i titoli accademici”.

“Se Dalla palude all’atomo, rappresenta un tentativo di comprensione della costruzione dell’identità personale e collettiva – conclude -, Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria ne può rappresentare l’antitesi: cosa accade e come si sopravvive al dissolvimento di una identità collettiva. Michel Foucault sostiene che invece di recuperare una identità “perduta”, liberare una natura imprigionata o una profonda verità, bisogna andare verso qualcosa di radicalmente Altro, non produrre l’uomo in quanto suo identico, ma qualcosa che ancora non esiste. Questa ricerca in dittico sull’identità, fa di Tutto ciò che è solido, il tentativo di comprensione di cosa può essere questo Altro. Tutto questo, legato ad aspetti personali, familiari e politici, legati anche al percorso di consapevolezza e affermazione di genere, ho provato ad esprimerlo all’interno di una ricerca che riguarda un contesto collettivo, l’unico in cui, a mio avviso, possono essere comprese le vicende e le inquietudini che assediano le società umane e gli individui. Tutto questo, non poteva che portarmi a comprendere le ragioni, le cause, gli effetti e soprattutto le macerie prodotte dalla fine di una cultura politica o, meglio, da un universo politico, il cui centro del sistema solare era il Partito Comunista Italiano. Sulla fine del PCI, però si sono prodotti, principalmente lavori che si concentrano sulle storie biografiche dei dirigenti, sui congressi, su ricerche e analisi di storiografia della politica classica (se non per alcuni casi, come il lavoro di Mario Caciagli sul Medio Valdarno). Per le mie esigenze di ricerca, sentivo che questo non poteva bastare: bisognava addentrarsi all’interno di un contesto “microstorico”, indagare in una prospettiva locale “dal basso” cosa l’evaporazione di questa cultura politica ha determinato nelle vite dei suoi militanti. In uno dei miei tanti viaggi a Siena, dopo aver letto alcuni libri recuperati alla Feltrinelli o alla Libreria Rebecca a Pantaneto, ho capito che “la provincia più rossa d’Italia” al cui interno c’è uno dei più importanti gruppi bancari, il Monte dei Paschi, le cui crisi stanno producendo una crisi sostanziale, economica e politica nella città di Siena e nella provincia, era il campo perfetto su cui confrontare le mie domande di ricerca”.

Come hai selezionato le persone da intervistare? Quali criteri hai utilizzato per garantire una rappresentatività delle diverse esperienze e posizioni all’interno del PCI senese?

“La selezione ha seguito due parametri, entrambi che sono stati influenzati dai fattori della casualità. Come dirò anche più avanti, le interviste sono in rapporto dialogico con le fonti scritte e altre tipologie di fonti, in una condizione di uguaglianza e non di subalternità, come invece vengono etichettate da gran parte della storiografia classica. Questo rapporto dialogico parte proprio dalla ricerca degli intervistati, che nasce in archivio: all’interno del fondo della Federazione del PCI senese, ho recuperato alcuni elenchi dei comitati federali e dei segretari di sezione della provincia di Siena, tra gli anni Ottanta e Novanta. Dopo un preziosissimo consulto con Niccolò Guicciardini e Giulio Guazzini (senza di loro il mio progetto tesi sarebbe rimasto solo una bozza e non si sarebbe mai concretizzato) ho optato per recuperare i contatti dei membri del comitato federale del 1989, eletti nel XIX congresso provinciale. La scelta di questo documento è legata principalmente a due fattori: le/gli eletti nel comitato federale del 1989 da un lato hanno vissuto la stagione politica della fine del PCI in provincia di Siena, dall’altro, per essere eletti in uno degli organismi territoriali principali del partito in provincia, avevano sicuramente attraversato le fasi precedenti. Ho recuperato i contatti di tutti i membri del comitato federale in vita e in base alle loro disponibilità nella primavera-estate del 2024, ho realizzato le interviste. Però, proprio per il carattere situato nel presente, cardine essenziale della ricerca, voglio anche dire il singolare sistema che mi ha permesso di arrivare all’Associazione Futura Siena, insieme all’ASMOS essenziale aiuto per realizzarla: l’algoritmo. Infatti, dopo aver fatto qualche ricerca preliminare su Google e Youtube, nelle ricerche correlate mi appaiono gli articoli di Siena Post e i video sull’iniziativa “Allosanfan” al Circolo Due Ponti. Probabilmente, sarei arrivato all’associazione e a voi di Siena Post successivamente, ma aver visto casualmente quei video e letto quegli articoli, mi ha fatto capire che poteva esserci un interesse sui temi della mia ricerca e mi ha spinto a contattarvi.
E’ interessante prendere in analisi questo aspetto, perché racconta molto dei fattori che condizionano oggi, non solo una ricerca, ma in generale le nostre vite”.

Potresti descrivere brevemente il “clima politico” che hai percepito emergere dalle interviste riguardo al periodo 1984-1994 a Siena? Quali erano le principali preoccupazioni, speranze o disillusioni?

“La casualità e le disponibilità delle/degli intervistati, come ho scritto nella tesi, hanno permesso di realizzare interviste solo a chi ha fatto parte o era sostenitore della mozione Occhetto ed ha poi fatto parte del PDS. L’assenza di Rifondazione Comunista in questo lavoro è uno dei più grandi problemi nella comprensione della fine del PCI in provincia di Siena, anche se questa è stata una delle province con le percentuali più alte alle mozioni Occhetto sia nel XIX che nel XX congresso. Questo però non significa che ho ricevuto visioni identiche e concordanti della storia sulla fine del partito, tutt’altro. Quello che posso dire, sinteticamente, è che la provincia di Siena aveva, da almeno metà degli anni Settanta (e per qualcuno anche addirittura dal congresso del 1956) avviato una grande trasformazione del partito uscito fuori dalla guerra di Liberazione, in cui hanno iniziato sempre di più a prevalere, sempre parlando in termini sintetici, le istanze riformiste rispetto a quelle rivoluzionarie. Su questo aspetto, così come emerso dalle interviste, la festa dell’Unità “Futura” del 1985 e il gemellaggio tra il PCI senese e l’SPD di Wetzlar, a metà degli anni Ottanta, rappresentano l’apogeo di questo processo, inserito all’interno di una crisi di strategia politica del PCI, dopo la fine della strategia del compromesso storico.
Il nodo principale però su cui la maggior parte delle/degli intervistati si sono scontrati è stata la svolta della Bolognina, percepita positivamente o negativamente come eccessivamente frettolosa. Tra anni Ottanta e Novanta, con la caduta del Muro di Berlino, la svolta della Bolognina viene percepita come la naturale prosecuzione di un processo già in atto oppure come una svolta brusca e necessaria per rendere chiara la differenza tra il PCI e i partiti comunisti dell’Est. Eppure, la disillusione più grande emersa nelle interviste è proprio legata a questo aspetto: un operazione che voleva preservare questa cultura politica e invece accelerato la dissoluzione. Quello che emerge dalle interviste, in una prospettiva tutt’altro che nostalgica, non è l’aver perso un simbolo, una iconografia, una mitologia del PCI, ma i significati che quel simbolo, iconografia e mitologia rappresentavano: in poche parole, aver perso non un partito, ma un modo di “fare politica” collettivo, a discapito delle correnti, dei personalismi che hanno animato la politica nei decenni successivi alla fine, anche nelle formazioni “discendenti” del PCI. E ancora oggi, i tentativi di ritrovare o costruire esperienze politiche locali o nazionali che condividano quel modo di “fare politica” del PCI è alla base della militanza e della partecipazione di molte e molti delle/degli intervistati”.

Quali sono stati i temi più ricorrenti emersi dalle interviste? Ci sono state narrazioni o esperienze sorprendenti?

“A differenza dell’intervista di tipo giornalistico, in cui si cerca di incalzare l’intervistato per metterlo in contraddizione oppure di raccogliere un’esperienza di vita sconvolgente, fuori dal comune, su cui costruire un articolo, la metodologia della storia orale prevede la costruzione di una fonte dialogica, un rapporto costruito tra intervistato e intervistatore, sui temi della ricerca. Le storie di vita, per me soprattutto nei casi di militanti politici, aiutano a comprendere come i processi, i discorsi e le memorie collettive sono parte e si costruiscono a partire dei processi, dei discorsi e dalle memorie delle intervistate/i. In questo senso, quindi, tutte le esperienze sono sorprendenti, perché ognuna possiede delle caratteristiche peculiari che compongono una memoria collettiva. Sicuramente alcune interviste, come quelle realizzate con Elio Cinquini e Tommasina Materozzi, sono “sorprendenti” perché le loro vite attraversano quasi tutta la vita del PCI nell’Italia Repubblicana, nel caso di Elio, o quella delle formazioni della “sinistra”, nel caso di Tommasina. Il carattere sorprendente delle interviste, secondo me, è comune alle interviste con la metodologia della storia orale: la storia non è una successione di eventi dall’alto che si ripercuotono verso il basso, ma un rapporto interconnesso in cui le persone sono produttori e vengono prodotti dai discorsi, dalle narrazioni, dai significati e dalle epistemologie”.

In che modo le testimonianze orali raccolte a Siena hanno confermato o messo in discussione le interpretazioni storiografiche più generali sulla fine del PCI che presenti nella prima parte della tesi?

“Nel corso del mio periodo di ricerca sul campo, ho ascoltato a Colognole Cesare Bermani, uno dei più importanti storici orali in Italia, dire che a scuola nei manuali di storia le popolazioni protagoniste dei fatti narrati sembrano disciolte nell’acido: la storia era solo una visione dall’alto di guerre, stati, interessi delle classi dominanti. La storia delle classi subalterne scompariva totalmente, pur essendo parte attiva dei processi storici. La storia orale, che permette di analizzare l’età contemporanea dal basso, è essenziale per ricomporre questa gente sciolta nell’inchiostro dei manuali. Nel corso della mia ricerca ho notato che sul periodo la maggior parte delle analisi storiografiche e politologiche continua a comportarsi come i libri di scuola citati da Bermani: seppur strumento utile di comprensione e elaborazione di alcuni concetti chiave per l’epistemologia per analizzare il Novecento, questi libri non interrogano mai l’oggetto dei loro studi. Quando si parla di fine della storia, di fine delle grandi narrazioni e delle culture politiche, eccetto alcuni casi come il già citato Caciagli, non vengono mai interrogate chi determina queste fini. Ed in effetti, questo è il grande tema che viene messo in discussione dalle interviste: utilizzando sempre la metafora liquida, l’evaporazione della cultura politica del PCI non è un processo lineare, un taglio netto, ma un processo ciclico, che ha prodotto nuvole, nuova pioggia, il tracciato di nuovi fiumi, sorgenti, torrenti carsici che sono presenti oggi, nel presente della società di massa atomizzata,  nel presente in cui predomina la sfera privata su quella pubblica, che producono l’iperpolitica, la politica confinata nella propria sfera di interesse, che pur in un clima di scontro continuo nell’affrontare i grandi problemi della società, ne resta profondamente distaccata. La politicizzazione senza politica, come la definisce Anton Jäger. Capire dove si dirigono questi fiumi carsici nel presente e come sono nati nel passato, mi sembra oggi essenziale”.

Quali sono state le principali sfide metodologiche incontrate nell’utilizzo della storia orale per questo tipo di ricerca? Come hai gestito questioni legate alla memoria, alla soggettività dei racconti e alla loro interpretazione?

“La storia orale, come ha scritto Alessandro Portelli, è da sempre considerata il “fantasma che si aggira per l’accademia”. Alla storia orale viene imputata la colpa di occuparsi di soggettività, di costruire una storia eccessivamente “di parte”, troppo legate alle interpretazioni personali dei ricordi, che sono frutto di manomissioni, “vuoti di memoria”, posizionamenti nella storia ecc. Eppure, soprattutto nella storia contemporanea (ma anche nelle altre periodizzazioni) non si può valutare in maniera acritica una fonte scritta, solo perché la sua natura, di documento cartaceo inserito in un archivio, ne produce una verità in senso assoluto. Pensate solo se la storia dell’Italia durante il fascismo, fosse letta dando un credito di “verità” ai documenti del fascismo, a discapito di altri tipi di fonti: daremmo corpo a una narrazione totalmente in linea a quella del regime e dei funzionari che hanno prodotto quei documenti. Per le fonti orali, così come per qualsiasi altro tipo di fonte, bisogna sempre interrogarsi sui dispositivi linguistici e cognitivi di cui quelle fonti sono composte: perché un fatto è raccontato in quel modo? Perché l’uso di questo termine rispetto a un altro? perché su questo avvenimento è stato posto un accento e su quest’altro no? Queste sono alcune domande che lo storico, secondo me, deve porsi all’interno di una ricerca, attraverso l’analisi di una molteplicità di fonti. Pur essendo parte principale della tesi, le fonti orali non sono le uniche fonti analizzate, ma sono sempre in rapporto dialogico con altri tipi di fonti, soprattutto quelle bibliografiche e documentarie consultate principalmente all’ASMOS, alla Biblioteca degli Intronati di Siena, alla Fondazione Gramsci di Roma e nelle Biblioteche nazionali di Roma e Firenze”.

“La questione è cruciale non solo per la storia – continua -, ma anche per l’analisi del presente: esistono molteplici movimenti politici nati su “fantasticherie di complotto”, per utilizzare un termine di Wu Ming 1, che si basano su notizie false, documenti falsi o interpretazioni false della storia. Eppure, quei movimenti sono reali e producono effetti nella realtà. Discorso simile vale anche per tutti i revisionismi storici sul fascismo e sul colonialismo italiano. Lo storico non può essere solo un fact checker, ma deve interrogarsi sul perché si producono determinati processi nella storia.  Questo non significa che non c’è bisogno di una ricerca storica militante che dimostri le falsità dei revisionismi storici: lavoro di storici come Carlo Greppi, Davide Conti, Eric Gobetti e del collettivo Nicoletta Bourbaki sono fondamentali. Ma bisogna anche soffermarsi, attraverso un’analisi di una molteplicità di fonti, come questi processi e narrazioni si consolidano nel presente, l’uso politico del passato e come funzionano gli ingranaggi della “macchina mitologica”: questo è sicuramente compito dello storico oggi”.

Ci sono state differenze significative nelle narrazioni tra diverse generazioni o tra persone che hanno avuto ruoli diversi all’interno del partito?

“Ogni intervista pone una diversa narrazione, non solo per una questione generazionale, di ruoli o di sensibilità politica, ma da molteplici fattori, come classe sociale, genere, livello di istruzione, per fare qualche esempio. Ogni narrazione, determinata da questi fattori, racconta un diverso Partito Comunista Italiano. L’aspetto che ho trovato più interessante è sicuramente l’aspetto geografico: le peculiarità territoriali della Val d’Elsa, della Val D’Orcia, della Valdichiana o di Siena Città, per citare alcuni dei territori della provincia, hanno determinato un modo diverso di declinare le istanze del partito e hanno prodotto delle differenze non solo di azione politica, ma anche di base sociale del partito diversa in base al territorio. Eppure, pur profonde, queste differenze sono tutti inserite all’interno di stesse procedure simboliche, codici linguistici, simili punti di riferimento, che legano al ricordo, che come scriveva il sociologo francese Maurice Halbwachs è un «azione pubblica costruita nella condivisione del vissuto», un sentimento identitario che «colma il bisogno di ogni soggetto di sentirsi radicato nel proprio gruppo di appartenenza e nel proprio mondo culturale»
Proprio per questo, pur nelle differenze, emerge dalle interviste una memoria collettiva del PCI”.

Qual è, a tuo parere, il contributo più significativo che le interviste, la storia orale, offre alla comprensione della fine del PCI in generale? Cosa si impara di specifico dal contesto locale senese?

“Credo che la metodologia della storia orale per una storia dei partiti politici di massa nell’Italia repubblicana può essere utile a due cose: comprendere i processi dal basso, collettivi e culturali che muovono le grandi trasformazioni della storia politica italiana, marginalizzate dalla storia politica classica, che ha come centro di interesse i dirigenti nazionali, i congressi e gli aspetti nazionali e internazionali della politica; il carattere situato delle narrazioni intorno al passato, che mutano in base alle trasformazioni, o come dice Braudel, alle inquietudini del presente. Proprio sull’esperienze senese c’è un bellissimo lavoro di Giacomo Li Causi, Il partito a noi c’ha dato, che riesce proprio a spiegare quanto questi due aspetti siano determinanti per non solo per comprendere il passato, ma anche per poter leggere come quel passato viene usato nel presente, a cosa serve e cosa determina. Per questo, all’interno di questo lavoro, ho provato a ragionare su un aspetto che emerge anche in Dalla palude all’atomo: la maceria. Prodotta dalle tensioni conflittuali, la maceria da un lato, rappresenta una risemantizzazione di ciò che prima rappresentava(il simbolo del PCI, ad esempio, che da essere un simbolo quotidiano, vivo, diventa un monumento, un oggetto che è privo di quel significato nel presente) in un nuovo impasto di discorsi e significati; dall’altro emerge come nuova cesura, frattura, limite all’interno dello spazio e del tempo. La maceria, intesa quindi come un elemento all’interno del mutamento epistemologico della fine del Novecento, rappresenta un interessante chiave di lettura con cui poter leggere ciò che da un punto di vista non solo storico, ma soprattutto semiotico e mitopoietico. La maceria può essere uno di quelle unità che produce (o è prodotta da) una macchina mitologica, per utilizzare l’espressione coniata da Furio Jesi, per produrre conoscenze e autocertificarsi come verità, portando i discorsi nella cornice di spazio e tempo. E’ chiaro però, che per poter leggere e comprendere gli effetti di questi meccanismi, è necessario entrare in dialogo con i vissuti delle persone che si riconoscono in quell’identità collettiva, in quei simboli, in quei codici linguistici”.

“Non dico che sia inutile – aggiunge Santangelo – quel tipo di approccio “classico” alla storia politica, ma utilizzare la metodologia della storia orale permette di aprire nuovi sguardi su questioni generali, avendo come punto di riferimento chi, nel caso senese, ha composto “la provincia più rossa d’Italia”: le sezioni, i militanti, gli elettori. Proprio da questa visione dal basso o dall’interno, si può capire non solo l’impatto con i mutamenti, ma anche il perché queste trasformazioni avvengono. Per la fine del PCI, ad esempio, dalle interviste emerge un dato chiaro: pur avendo intervistato chi ha sostenuto le mozioni di Occhetto nel XIX e XX congresso (un grande limite di questo lavoro, come ho scritto nella tesi, è proprio quello di non essere riuscito ad entrare in dialogo con chi ha fatto parte delle mozioni da cui poi nascerà Rifondazione Comunista; aspetto su cui lavorerò sicuramente in futuro), pur continuando a sostenere la tesi che per il PCI quello fosse un passaggio non solo necessario, ma conclusione di una trasformazione già in atto da almeno due decenni, la maggior parte degli/delle intervistate riconosce che gli effetti di quella scelta, volti a preservare l’esperienza del comunismo italiano, ne hanno cancellato l’aspetto fondante: la cultura politica. La provincia di Siena, in questo senso, ha la peculiarità che questo aspetto agisce in maniera più dirompente sulla sua struttura sociale e culturale. In una provincia in cui la cultura politica del PCI era così ampiamente diffusa, indagare la dissoluzione apre uno spazio di riflessione più profondo non solo per capire il contesto italiano, ma anche internazionale”.

Dopo aver condotto questa ricerca, qual è la tua visione sulla transizione dal PCI al PDS nella provincia di Siena? Come è stata percepita e vissuta a livello locale?

“Nell’ultimo capitolo, dopo le interviste, ho inserito un ragionamento intorno a due elementi: la nascita dell’ASMOS, l’Archivio Storico del Movimento Operaio Senese, brillante intuizione di Vasco Calonaci e un episodio raccontato nel libro di Gino Civitelli. Da un lato abbiamo la conservazione e resa al pubblico dell’archivio di un partito dissolto, il PCI, che deve essere molto di più di uno strumento per studiose/i. Scrive Calonaci in un intervento del 1989 che l’ASMOS «non vuole essere soltanto un magazzino di vecchie carte e libri, ma uno strumento di lavoro, il più possibile vivo e presente nelle vicende soprattutto culturali della provincia. […] Studiosi, ricercatori, studenti, dirigenti politici e anche semplici cittadini potranno trovare nell’ASMOS anche le pagine più sconosciute e più delicate dell’organizzazione comunista e dei suoi dirigenti e potranno verificare attraverso quale sforzo, quale sacrificio, quale tensione morale il P.C.I. sia stato capace di risvegliare e di rendere attiva l’intelligenza e di suscitare l’impegno di giovani e di donne e di uomini spesso dando ad essi la dignità di uomini e trasformandoli da spettatori in protagonisti». Nel momento in cui l’esperienza politica e culturale si sta dissolvendo nel presente, l’ASMOS trasforma il presente in passato, in uno strumento politico per i nuovi mutamenti del presente. Dall’altro abbiamo il racconto di Gino Civitelli, che viene a conoscenza del rogo delle carte della sezione Gramsci di Buonconvento, di cui sembra non rimanere più nulla, neanche i negativi delle fotografie delle manifestazioni, dei cortei. Queste due visioni della storia appena conclusa del PCI coabitano nella provincia di Siena e si ripercuotono nel presente”.

Hai intenzione di proseguire questa ricerca in futuro, magari esplorando periodi successivi o altri aspetti della storia politica senese?

“Come ho scritto nell’introduzione, per me è una ricerca essenziale per il tema che ho trattato. Affrontare oggi il tema delle apocalissi culturali, la nostalgia come dispositivo politico, il tempo liminale che determina la fine di un periodo e l’inizio di un altro rappresentano quelle “inquietudini del presente”, per usare un’espressione di Fernand Braudel, che muovono la ricerca storica. La fine del PCI e della cosiddetta Prima repubblica rappresentano dei casi perfetti da interrogare su questi temi. Credo che per poter afferrare questi temi, bisogna necessariamente scendere in un contesto locale, per poter osservare come questi aspetti prendono corpo nei contesti quotidiani. Siena su questi temi ha molto da dire e per questo mi piacerebbe continuare qui questo lavoro di ricerca. Credo fortemente che la ricerca storica nasca da bisogni personali e collettivi profondi e possa essere utile per rispondere a queste esigenze, personali e collettive. Se così non fosse, per me, non potrebbe esistere ricerca storica”.

C’è stata un’intervista o una testimonianza che ti ha particolarmente colpito o che ha cambiato la tua prospettiva sulla fine del PCI?

“È difficilissimo rispondere a questa domanda. Anche se sembra banale, tutte le interviste che ho realizzato mi hanno colpito nel profondo, proprio perché da ognuna ho trovato alcune risposte che cercavo, alcune domande che non mi aspettavo e altri elementi che hanno fatto navigare non in acque sicure la mia ricerca. Per questo ringrazio nuovamente tutte e tutti coloro che hanno accettato di fare con me questo viaggio”.

Cosa hai imparato personalmente da questo progetto di ricerca sull’importanza della memoria individuale e collettiva nella ricostruzione storica?

“Questa ricerca mi ha fatto capire che la metodologia della storia orale, con tutte le sue complessità e i suoi aspetti da maneggiare con molta cautela, è il metodo che sento più mio per fare ricerca. E credo che chi si voglia occupare di storia contemporanea e in particolare di storia politica, non può più osservare solo l’aspetto istituzionale, già profondamente studiato e analizzato. Nel caso dei partiti e movimenti di massa, occuparsi e interrogare solo i dirigenti nazionali, i congressi ed altri elementi istituzionali rischia di “sciogliere nell’acido”, per usare ancora il termine di Bermani, l’elemento portante dei movimenti e partiti di massa: le migliaia e migliaia di militanti, la base. Per capire l’evolversi dello scenario politico e capire come siamo arrivati al nostro presente è necessario partire dalla struttura cardine che ha retto quello scenario politico”.

Quale consiglio daresti a futuri studenti o ricercatori che intendono utilizzare la storia orale per studiare fenomeni politici o sociali?

“Non ho l’età né l’esperienza per poter dare consigli, anzi sono io ancora a cercarne. Ma ribadisco il concetto espresso precedentemente: se si vogliono capire trasformazioni, mutamenti e tensioni conflittuali nella storia politica non si può più fermarsi solo agli organismi nazionali, alle istituzioni e alle relazioni internazionali. Bisogna ricomporre gli uomini sciolti nell’acido dei manuali di storia”.

La tua tesi si ferma qui o diventerà qualcosa di più?

“Spero di no. E dico spero perché in un presente dove da un lato si taglia alla ricerca universitaria e dall’altro si finanzia il riarmo e i conflitti, non c’è proprio spazio per gli storici e gli studiosi di materie umanistiche in generale. Ho qualche progetto in cantiere e sto lavorando per poterla pubblicare. Come ho fatto per l’altra tesi, mi piacerebbe poter condividere il mio lavoro, riseminando quello che ho raccolto. Intanto, per chiunque voglia leggerla, la tesi è disponibile in libera consultazione presso l’ASMOS a Siena”.

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