Ricordi di un’infanzia passata in un recinto fatto della grande casa e dalle piccole coloniche
Era sicuramente tra ottobre e novembre una di quelle mattine in cui il sole basso fa risplendere le cose e l’aria fresca arrossa le gambe. All’epoca, era un pensiero comune che i bambini dovessero portare i calzoni corti anche in inverno, per fortificare il fisico.
Come solito ero stato buttato fuori di casa. Marina era intenta a rassettare le camere e non mi voleva tra i piedi; i miei erano al lavoro e mia sorella a scuola. La piccola comunità di cui facevo parte era come dissolta, rarefatta, dispersa nelle cose dei grandi. Io, il più piccolo, girovagavo solitario nel piazzale: era il mio mondo conosciuto, le mie Colonne d’Ercole invalicabili pena indicibili punizioni.
Una fila di piccoli edifici monofamiliari ad un piano circondava la corte. Gli usci, con la chiave nella toppa, erano perennemente socchiusi.
Dopo un po’, stanco di rincorrere immaginifici pensieri, ho iniziato a mettere il viso tra l’uscio e il muro di ogni casa, ad annusare gli odori che uscivano dalle cucine. Come un cane da penna, provavo ad indovinare che cosa bollisse nelle pentole.
La casa di Nilde era per me una delle più familiari. Una donnina piccina piccina, sempre vestita di nero con i capelli legati in una crocchia fermata sulla nuca da mille forcine, era la nonna di tutti noi bambini, sempre gentile e piena di premure.
Dalla casa usciva un fantastico odore di pommarola che avvolgeva ogni cosa. Era irresistibile. Entro, percorro il corridoio e la vedo, china sul tavolo di marmo intenta a passare con un colino la marmellata di fichi, togliendo i piccoli semi.
Lo faceva con metodo, premendo la composta con un mestolo di legno verso la retina. L’ambra che colava nel barattolo era il nettare degli Dei.
“Ho finito,” disse. “Vuoi venire con me? Devo andare nel campo”. Annuii con la testa. Mi sembrava una fantastica avventura.
“Vuoi pulire il mestolo?” aggiunse mentre meticolosamente “sdusciava” su una fetta di pane il grosso cucchiaio. Gli occhi mi brillavano di felicità . Con in mano la fetta di pane porsi l’altra verso di lei e partimmo.
Mi piaceva la consistenza della sua mano: la pelle era liscia e morbida, come se il lavoro e le fatiche di tutta una vita l’avessero accuratamente conciata e resa soffice.
Per un bambino di cinque anni, alto poco più di un metro, attraversare l’erba alta era come un’avventura nella giungla più profonda. Le piante della carciofaia, ormai appassite, mi sovrastavano di almeno venti centimetri, mentre i cardi, legati dritti in attesa del gelo, sembravano colonne con rotonde basi.
Duravo fatica a camminare nel coltrato: le grosse zolle non davano sostegno. Il limite del campo era vicino ad una piccola scuola. Proprio lì, a marcare il confine, era stato piantato un bell’albero di mele cotogne.
Nilde posò il paniere nell’erba e iniziò a riempirlo. Io mi arrampicai sul muro per osservare i ragazzi che attenti seguivano la lezione. Doveva essere una classe mista: gli alunni erano di tutte le età . I banchi neri consunti erano un tutt’uno con la seduta, assomigliavano più alle panche di una chiesa che ad un luogo comodo dove studiare.
I bambini mi davano le spalle. Vedevo perfettamente la maestra scrivere qualcosa sulla lavagna.
“Luca, dai andiamo”, disse Nilde con il pesante cesto appoggiato sul fianco. “Dai che è tardi, tra poco torna la mamma”.
Rientrammo non prima di aver fatto una sosta al “fontino” per lavare ben bene i frutti e poi nella parata, dove con meticolosa cura li stendemmo sulla stiancia perché appassissero.
“Dai, per oggi abbiamo finito – disse Nilde -. Tra qualche giorno torniamo a prenderle e mi aiuti a fare la marmellata”.
Durante quel giorno avrò forse giocato con uno stecco rotto, forse sarò stato ad osservare le galline covare le uova o intento a scappare dalla nana Piera che ogni volta che mi vedeva mi inseguiva nell’aia, o ancora nascosto nell’incavo del pagliaio, dove Virgilio prendeva il fieno da dare alle chianine.
Alcune volte mi chiedo perché ancora oggi ho ricordi così vividi di un periodo così lontano della mia vita. Però, pensandoci bene io una risposta credo di averla…