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venerdì, Aprile 19, 2024

Quando i registi vogliono primeggiare mandando dietro le quinte i musicisti!

Sono sul treno che da Napoli mi riporta a casa e ripenso al pomeriggio del giorno prima, quando al Teatro San Carlo ho assistito all’opera di Giuseppe Verdi, Otello.

Mi chiedo se siano operazioni accettabili quelle dei registi che, con sempre maggior insistenza, pretendono d’occupare il proscenio, piegando alle loro idee, ai loro gusti, ai loro obiettivi tutto il lavoro melodrammatico e musicale di un’opera lirica.

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Può essere nobile l’obiettivo di rendere dei capolavori della storia passata alla portata dei giovani e non farli rimanere nei musei. Mi chiedo però dove possa essere fissato un limite invalicabile e quando sia giusto mettere un confine…

Il palco reale del San Carlo di Napoli

Oramai siamo nel pieno della creatività registica: alla Scala, Livermore ci annuncia un Macbeth moderno, ambientato ai giorni nostri per “far vedere le conseguenze di una dittatura perché il pubblico ha bisogno di vedere e di riconoscersi e capire cosa significa prendere il potere in maniera iniqua”.

E’ proprio questo il punto essenziale del Macbeth di Verdi e dello Shakespeare? Sempre più spesso, purtroppo, si utilizza l’opera lirica per parlare di cose serie indubitabilmente, che vanno affrontate inevitabilmente, che vanno fatte conoscere e sulle quali impegnarsi ed intervenire per una evoluzione democratica. Che questo lo si faccia utilizzando l’opera lirica dell’otto/novecento stravolgendola, a volte completamente, mi pare invece, un utilizzo improprio.

Placido Domingo forse ineguagliabile nel suo Otello

Ci sono tanti Rigoletti che girano sulle auto tra spacciatori di droga, tante Mimì dedite alla prostituzione e via di seguito. Mi chiedo come mai solo per il teatro dell’opera si fa questa sperimentazione continua e se, in tal modo, si raggiunga effettivamente l’obiettivo di coinvolgere un pubblico giovanile, di portarlo a frequentare i teatri lirici abbassando l’età media degli spettatori.

A Napoli, al Teatro San Carlo domenica scorsa, l’età media era molto alta e i giovani e giovanissimi erano un’eccezione. Penso che, se questo fosse l’obiettivo vero dei registi trasfigurativi – anche se non ne sono convinto -, ci si dovrebbe arrendere all’evidenza: la ricetta e la cura è sbagliata o comunque non è efficace allo scopo.

Dovremmo abbandonare, pertanto, il continuo revisionismo dell’opera lirica che ha generato e continua a generare degli orribili Frankenstein! Si dovrebbe invece lavorare di più su come portare l’opera lirica, la musica e il teatro musicale nelle scuole o ad altre operazioni di questo tipo più che insistere sulla continua snaturalizzazione di opere d’arte.

Otello è infatti, per davvero, una grande opera d’arte musicale: Verdi con Boito riesce a far giungere alla massima perfezione il testo poetico originale di Shakespeare.

Giuseppe Verdi

A salvare l’opera di Napoli sono stati un cast di altissimo livello e una magistrale direzione dell’orchestra. Eppure, nonostante questo, la regia è riuscita a spezzare il filo conduttore tra il grande scrittore inglese e il musicista di Roncole e a rompere quei tratti drammatici che Verdi aveva ben costruito – studiando e ristudiando, approfondendo, facendo tentativi, consultando esperti, tormentandosi non poco – e che riteneva fondamentali per portare in musica e in dramma scenico la tragedia di prosa.

E i personaggi sono scolpiti efficacemente dalla musica verdiana: i loro caratteri, i loro limiti, le loro dolcezze, le loro perfidie, il feroce sentimento della gelosia. Le pause e i concertati, gli assoli, i duetti si legano inscindibilmente alla scena e non ne prescindono affatto.

D’Annunzio notò, come ha riportato Mario Rinaldi nel suo libro “ Le opere più note di Giuseppe Verdi” come il feroce sentimento di Otello sia racchiuso nel riconoscimento di una “irreparabile inferiorità in cui lo mettevano il colore della pelle e la diversità della razza” che sono due, delle tantissime altre cose, che non troviamo nell’Otello di Martone.

Qui siamo tra un esercito moderno che spara raffiche di mitraglia, che non ci sono né potevano esserci nel testo del Boito e nello spartito del Giuseppe, tra ospedali da campo, flebo che scorrono nelle vene o in containers trasformati in rudi abitazioni, oppure davanti all’ingresso di un capannone in lamiera che cala improvvisamente sul palcoscenico. “… la fanciulla timida sì modesta che tremava al suon della propria voce, che arrossiva a ogni momento” – così la descriveva lo scrittore e così la tratteggia musicalmente il Verdi – diventa invece una combattente con un carattere vivace e sfrontato!

Roba da far agitare il sonno eterno del grande Verdi, lasciare sbigottito il Boito e molto incazzato lo Shakespeare. Non dico che certe sperimentazioni siano da abolire e che un regista non possa metterci un suo stile e le sue capacità, la sua professionalità nel rappresentare un’opera lirica: un conto, però, è far questo mentre altra cosa è invece quella sostituire i presupposti basilari del melodramma e utilizzare la grande creatività di un musicista come Verdi o Puccini piegandola e sottomettendola alle proprie visioni politiche, culturali, ai propri interessi.

Quest’ultime le ritengo operazioni sbagliate, poco proficue, che limitano e ridimensionano anche la corretta interpretazione musicale, la prova di un ottimo direttore d’orchestra come Michele Mariotti a Napoli e di tanti bravi cantanti.

Verdi scriveva che “Quando si conosce bene quello che si ha da musicare, e si ha da scolpire un carattere o dipingere una passione, è più difficile lasciarsi fuorviare dalle bizzarrie e dalle stravaganze qualunque siano, vocali e strumentali…” e io aggiungerei, oggi, anche registiche e scenografiche.

Verdi teneva così tanto all’Otello che volle – è ancora il Rinaldi che scrive – “curarne personalmente la messa in scena alla prima della Scala. S’interessò di tutto, specialmente della scena finale, della morte del protagonista, fornendo un esempio diretto di come Tamagno dovesse rotolarsi sugli scalini del letto di Desdemona e ciò nonostante i suoi settantaquattro anni”.

A Napoli invece Desdemona morta viene portata fuori scena, facendo venir meno l’apoteosi del dramma. Non a caso Verdi aveva lasciato tutta la scena finale ai soli due protagonisti perché occorreva concentrare tutto il carico emotivo su Otello e sul cadavere di Desdemona.

E’ Otello che trova ancora la forza di dire “Pria di ucciderti io ti baciai e poi un bacio… un bacio ancora … un altro bacio…: Desdemona però non c’è e l’impatto finale precipita e si riduce in maniera incredibile! Verdi era attento a cercare di rendere al massimo la malvagità dello Jago, la sua astuzia e la sua perfidia, la tela delicata di un disegno perverso.

A Napoli come in molti altri teatri nazionali, a parte appunto le fantasiose trovate registiche, si deve dare atto di un grande lavoro preparatorio, con tante prove che sotto la guida di bravissimi direttori riescono a rendere lo spettacolo eccellente: per lo scrupoloso rispetto della partitura, per la coralità dell’orchestra che fa, anche delle pause un elemento portante della dramma, per la precisione degli attacchi e per l’efficacia dei concertati, del coro che va alla perfezione, per lo studio e la preparazione dei cantanti, da quelli principali alle parti secondarie.

Non in tutti i teatri troviamo la stessa cura dei particolari e la preparazione dello spettacolo così meticolosa e accurata come al San Carlo, come alla Scala, come alla Fenice, come al Festival Rossini o a quello Donizettiano o Belliniano.

Penso invece alle ultime serate passate al Festival Pucciniano di Torre del Lago dove probabilmente di prove se ne fanno davvero poche: così si vedono e si sentono chiaramente le sfasature e le approssimazioni; si va più all’ingrosso e sulla quantità che non nella cura dello spettacolo in tutte le sue articolazioni e componenti.

Eppure a Torre del Lago si dovrebbe celebrare il genio musicale e drammaturgico di Giacomo Puccini e non lo si dovrebbe fare con una stagione lirica minore come oggi purtroppo è, anche se la manifestazione si fregia di falsi e ingannatori sostantivi: di Festival Puccini e di Fondazione Festival Pucciniano.

Giuseppe Verdi

E’ l’Italia che va… o che non va… o, ancora meglio, che va a velocità e con passi diversi.

Il mio treno è giunto alla stazione di Viareggio e dopo esser sceso mi rendo conto che sarebbe necessario che si ricominciasse, chi per un verso chi per un altro, a rimettere in primo piano i nostri grandi musicisti, le loro opere, il loro certosino e difficile lavoro per trovare una solida unità tra librettisti, cantanti, scenografi, editori, ma pure le loro regie, curate direttamente e in prima persona, delle quali quasi tutti hanno lasciato istruzioni ben precise, persino su come collocare gli oggetti in scena, sulle luci e sulle movenze dei vari personaggi.

I registi ci vogliono ma dovrebbero dimostrare la loro bravura a superare in qualità quello che Verdi, Puccini, Donizetti e gli altri fecero dirigendo in prima persona i loro drammi musicali.

Forse sarebbe il modo migliore per far interessare i giovani al teatro lirico, magari moltiplicando i momenti e le occasioni per ritornare alle origini, a quei carteggi nei quali il senso del dramma e le varie opzioni venivano affrontate direttamente dal musicista.

Mi è parso corretto e giusto rielaborare e mettere in forma scritta questi miei pensieri e queste fugaci considerazioni emerse durante le quasi sei ore di viaggio da Napoli a Viareggio: questa è invece una delle cose dove, almeno sulla Costa, siamo rimasti indietro e non ci sono stati né ci sono, purtroppo, registi fantasiosi che suggeriscano alle Ferrovie e allo Stato italiano di fare qualche forzatura avveniristica!

In questo caso, di loro, ce ne sarebbe davvero bisogno!!

(tutte le foto sono tratte da profili pubblici di Fb)

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