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venerdì, Luglio 5, 2024

Castello di Carini, quel che le sue pietre raccontano

Qui il 4 dicembre 1563 si consumò il delitto d’onore più “nobile” della Sicilia che Filippo II si affrettò a perdonare

“Ciao, sono Olga Giordano.  Quando Chiara mi ha proposto di collaborare a questa sua nuova  e frizzante rubrica,  mi sono sentita felice e onorata.  Felice perché la lettura e la  scrittura  sono  da sempre il bricolage del tempo libero. Onorata perché, al di là dell’affetto che ci lega, stimo  e  ammiro il talento di  Chiara e la sua  scrittura limpida,  sensibile e mai  scontata.  Come lei.  Riguardo me, i miei studi umanistici e socio-antropologici sono stati lo sbocco naturale di un’anima innamorata  e curiosa della storia,  con l’occhio rivolto al presente a constatare le dinamiche  cicliche e  comuni.  Il passato ci parla, ogni pietra antica ci sussurra la sua storia, che è la storia di uomini e mondi lontani nel tempo ma più  vicini di quanto pensiamo”.

Con queste parole di Olga che ha accettato con entusiasmo di partire con me per questa nuova avventura, diamo il via alla nuova rubrica “…e se i luoghi parlassero”, iniziando a costruire la nostra collana preziosa di luoghi particolari del nostro Paese. Luoghi con un’energia unica che hanno attratto la nostra attenzione come canti di sirene.

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La prima perla che siamo andate a schiudere dal rigido guscio della sua conchiglia si chiama Castello di Carini e si trova appunto a Carini, in Sicilia.  Fu eretto dal primo feudatario normanno Rodolfo Bonello come fortezza medievale. Nel 1282 divenne di proprietà della famiglia Abate che trasformò la struttura da difensiva a residenziale. Famiglia che, però, fu poi privata di tutti i suoi beni perché schieratasi con i Chiaramonte nella disputa per il possesso della corona. Nel 1397 il re Martino I affidò la terra di Carini a Umbertino la Grua per i servizi che gli aveva reso.  Umberto non ebbe prole maschile e fece sposare la sua unica figlia Ilaria con il catalano Gilberto Talamanca, dando vita alla casata La Grua Talamanca. Il maniero diventò famoso per la tragica vicenda di Laura Lanza di Trabia, baronessa di Carini, moglie di don Vincenzo La Grua-Talamanca, che nel 1563 fu uccisa dal padre per motivi di onore insieme al presunto amante Ludovico Vernagallo.

Ma questa è semplicemente storia. Giusto un accenno, per disegnare appena i connotati del protagonista del nostro articolo. Perché sì, sarà lui, il castello a raccontarsi a noi. Grazie alla pazienza, alla capacità di ascolto e all’immensa abilità di Olga a trasformare i messaggi ricevuti in parole.

E quindi, Castello di Carini, descrivici chi sei, raccontaci i tuoi trascorsi, parlaci di te, delle vite che ti hanno attraversato  nei secoli…..

“Gli ultimi raggi del sole morente lambiscono le mie mura secolari, facendole rifulgere di riverberi dorati, intensi come tutto quaggiù in Sicilia, dal profumo delle zagare all’azzurro del golfo di Carini, conteso tra Punta Raisi e Capo Gallo, che lo sguardo può abbracciare, dall’alto dei miei bastioni. Ho visto innumerevoli albe, innumerevoli tramonti, ognuno diverso, nello scorrere immutabile del Tempo. Che i luoghi siano immemori della Storia che li attraversa è una cosa che può istillarsi solo nelle menti di chi passa distratto, di chi non “sente” l’energia sprigionata da un vecchio muro, da un antico oggetto, in cui risuona l’eco senza voce di innumerevoli esistenze fagocitate dal Tempo vorace. I Luoghi sono, insieme, testimoni e protagonisti di tutto ciò che ci qualifica come effimeri umani, dalla micro alla macrostoria. Anche le mie grandi sale, ora immerse nel silenzio, rotto dallo scalpiccio dei passi di qualche visitatore solitario, un tempo riecheggiarono di vita quotidiana, di musiche antiche, di voci infantili, di gioia, di dolore, di amori e di guerra. Gli albori della mia prima pietra, coincisero con un grande momento storico per la Sicilia: l’avvento normanno, in seguito al quale, nella vicina Palermo, fiorì la corte illuminata e multiculturale dello “Stupor Mundi”. Mi volle erigere, tra il XI e il XII sec, un fedele del conte Ruggero d’Altavilla, Rodolfo Bonello, su una preesistente struttura araba: i luoghi sono suscettibili di cambiamenti strutturali, ma il loro “cuore” continua a battere. Da allora, fui spettatore delle alterne fortune delle famiglie che condussero la loro parabola terrena tra le mie mura: gli Abate, i Chiaromonte, i La Grua-Talamanca. L’ avvicendarsi dei secoli vide la mia evoluzione da fortezza militare a residenza nobiliare. Conobbi la mia “stagione d’oro” nel XV sec quando intorno a me ferveva, come in un solerte alveare, la Vita. Era come se, sotto lo sguardo di un benevolo genius loci, l’aroma degli agrumi e dei cannameli fioriti si innalzasse nell’aere, fondendosi in un inscindibile connubio di splendore adamantino e sentore di salsedine. Quanta Vita, quante Vite mi sono scorse davanti! Quanti primi, ed ultimi, ansiti di vita ha raccolto il mio marmo di Billiemi!”

Ugo Pagliai e Janet Ågren nello sceneggiato “L’amaro caso della baronessa di Carini”, ambientato nel 1812 che porta a far ripercorrere ai due protagonisti la vicenda della ballata popolare di oltre due secoli prima, vedi wikipedia.

Nello scorrere dei giorni e degli anni, una data resta impressa su di te, indelebile come un tatuaggio… il 4 dicembre 1563…

“ Il 4 dicembre 1563, le mie mura ricevettero non solo l’ultimo afflato vitale di Laura e Lodovico, ma anche il loro sangue, caldo, ancora fremente di desiderio. Si, fu proprio questa vicenda di passione e morte a rendermi tristemente famoso in ogni dove. Da quel giorno funesto fui noto come il castello della baronessa di Carini. Il tempo, nonostante i secoli scorsi non ha scalfito la memoria. Ricordo bene il giorno in cui Laura Lanza di Trabia giunse, sposa quattordicenne di Vincenzo La Grua. Bella, di quella bellezza fresca che solo la gioventù ignara può dare. Le mie mura risuonarono della sua voce argentina, la videro sposa e madre, scrutare l’orizzonte, presso una bifora, con l’animo preso da un turbamento senza nome, vagheggiando quell’ indefinito che si chiama libertà. La monotonia   delle lunghe giornate, scandite dal frinire fitto delle cicale, era spesso interrotta dalle visite del giovane Lodovico Vernagallo, cugino del marito e amico d’infanzia di entrambi. Finché, un giorno, il Destino volle che i loro sguardi si incontrassero non più con l’innocenza dei tempi in via Alloro, a Palermo, ma con la tremebonda consapevolezza di un sentimento nascente. Un sentimento deprecabile, colpevole, ma di fronte al quale soccombe il potente e il misero, e che a quei tempi si poteva pagare con la vita, poiché macchiava l’onore del marito tradito. La donna, inoltre, nonostante le origini nobili, era ridotta alla stregua di un bel l’oggetto da possedere e ostentare, tramite attraverso cui perpetuare la propria discendenza. Consapevoli del rischio, ma obnubilati da quegli attimi d’amore rubati, vennero sorpresi, probabilmente in seguito a una delazione, dal marito e dal padre di lei, don Cesare Lanza. Furono così immolati sull’altare di un’epoca in cui i sentimenti, al di fuori delle convenzioni, erano colpa tale da esigere la vita. L’onta fu lavata con il sangue e gli assassini, essendo nel loro diritto, rimasero impuniti, assolti a formula piena. Il fattaccio suscitò una vasta eco ma, a causa della importanza delle famiglie coinvolte, fu fatto passare in sordina. Dai registri stessi della chiesa matrice di Carini, il duplice decesso fu liquidato con due scarne e omertose righe “A di 4 decembre 1563 fu morta la Spettabile Signora Donna Laura Là Grua… Eodem fu morto Lodovico Vernagallo”. Più eloquente fu una lettera confessione indirizzata al sovrano Filippo II di Spagna, da Cesare Lanza in cui veniva chiesta la grazia per quella che era una semplice e ordinaria questione d’onore. Grazia che fu serenamente concessa. Si sussurrò che l’omicidio avesse avuto come movente grette questioni economiche, essendo il Lanza fortemente indebitato con il Vernagallo. Il La Grua, da parte sua, avrebbe incamerato per la lex Iulia, metà del patrimonio del rivale. Quel don Cesare! Anche quella notte, giunse tracotante, con il suo solito codazzo di sgherri, armati di archibugi. Uccisore del suo sangue! La conoscenza reale dei fatti è nota a me soltanto e a coloro che vissero realmente la vicenda e non possono più raccontare. Purtroppo, la voce delle vestigia antiche non sempre riesce a raggiungere voi umani; certe storie sono destinate a rimanere chiuse nel libro della Storia per sempre”.

Però certe storie, sebbene chiuse e sepolte nel silenzio, trovano vie alternative per venire alla luce e gridare in qualche modo vendetta eterna….

“Si, hai ragione. E’ proprio così. Ad eternare la storia di questo femminicidio dei tempi antichi, la “vox populi”, la tradizione popolare che ha fatto sì che, dopo secoli giungesse fino a noi il canto struggente, noto come “L’ amaro caso di la baronissa di Carini“, un testo che travalica ogni ostacolo sociale, in nome di una solidarietà che si appella a quel valore universale che è l’amore. Raccontano che, dopo il delitto, il barone La Grua avesse rimosso tutto ciò che gli potesse ricordare la presenza della moglie fedifraga, arrivando a disconoscere gli otto figli nati da lei. Si scoprì che la relazione era di lunga data. Meno di due anni dopo convolò a nuove nozze, rimaste sterili, e pare sia stata sua l’idea di apporre sull’ingresso del palazzo la scritta “Recedant vetera et nova sint omnia” (“Si dimentichi il passato e ogni cosa si rinnovi”). Mi ristrutturò da cima a fondo. L’ala ovest, dove si trovavano gli appartamenti di Laura, lasciata all’incuria ed evitata da tutti, finì per crollare, trascinando con sé il suo carico di memorie dolorose. La leggenda dell’impronta insanguinata lasciata dalla baronessa morente sul muro della stanza dove venne compiuto il duplice omicidio, e che pare riappaia vivida nel ricorrere del triste anniversario, è appunto solo una fantasia per irretire i turisti. In una delle metope del mio torrione principale si trova il bassorilievo di una manina: niente a che fare con la storia dell’amore infelice di cui sono stato testimone. E’ la “mano di Fatima“, figlia di Maometto, un potente amuleto di origine araba. E’ probabilmente la “firma” di una maestranza araba che partecipò alla costruzione del castello e che volle così lasciare un auspicio di potere, fortuna e buona sorte, di gran lunga antecedente alla vicenda. Talvolta, nelle ore più silenziose, i miei ambienti sembrano animarsi di eteree presenze, energie che vanno e tornano da onirici mondi paralleli, inconsistenti come refoli di vento, che tornano nel luogo dove hanno vissuto, amato, gioito, sofferto. Tra tutte la riconosco, Laura, un’ombra sottile, smarrita, genuflessa nella cappella, forse raccolta in un muto colloquio senza risposta, se vi sia rispondenza tra giustizia umana e divina. Aggrappato a questa rocca millenaria, chissà per quanto tempo ancora le mie pietre saranno sferzate da vento e pioggia, riscaldate dal rovente sole siciliano, muto testimone delle cicliche contingenze umane. In fondo, noi Luoghi fisici, pur sembrando eterni e stabili, non siamo poi così diversi da ogni essere vivente: un capriccio della Natura o della mano dell’uomo”.

Ringraziamo il Castello di Carini per il tempo trascorso con noi. Un colloquio chiaramente virtuale, per certi versi onirico, ma non per questo meno reale. Il suo racconto, trasformato in parole, tocca le nostre corde più nascoste. La sua energia, fatta di tutte le vite che lo hanno attraversato, esiste ed è potentemente reale. Basta solo riuscire a cambiare frequenze e ascoltare sintonizzandoci su altri canali. E chissà, magari, dopo questa chiacchierata, qualcuno di noi sentirà il desiderio di vederlo di persona il Castello. Magari si troverà a varcare la sua soglia e sentirà la sua voce nel silenzio dei bastioni interrotto dal fruscio del vento che dice: “non siamo così diversi noi luoghi fisici da voi esseri viventi: un capriccio della Natura o della mano dell’uomo”.

Olga Giordano e Chiara Bennati

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