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venerdì, Novembre 22, 2024

I cattivi consigli della fretta quando le banche hanno voluto cambiare

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un’anteprima dal numero di novembre di Leasing Magazine sul tema “Riflessioni sulle crisi delle banche” firmato da Divo Gronchi e curato da Gianfranco Antognoli.

Lo scorso 24 ottobre, in una nota congiunta, il Ministero dell’Economia delle Finanze e UniCredit comunicano l’interruzione dei negoziati per l’acquisizione, da parte di quest’ultima, della Banca Monte dei Paschi di Siena (di cui il Tesoro detiene il 64% del capitale): è l’ultimo capitolo delle vicissitudini che hanno colpito la banca senese, che dall’annuncio dell’acquisizione di Banca Antonveneta – era il 2007 – ha affrontato ben cinque ricapitalizzazioni per un totale di oltre 23 miliardi di euro.

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Le vicende di Mps, pur rappresentando un caso limite, si innestano in uno scenario bancario, italiano e internazionale, che ha dovuto riconfigurarsi negli anni di pari passo con i mutamenti politici e tecnologici in atto – manifestando, in questa corsa evolutiva sempre più forsennata, nuove criticità.

Abbiamo chiesto a Divo Gronchi, banchiere di alto profilo e autore di importanti approfondimenti sul mondo finanziario pubblicati da Leasing Magazine, di condividere una riflessione sulle crisi che molte banche del panorama odierno sono chiamate ad affrontare.

Divo Gronchi

Quali possono essere le cause delle difficoltà di molte banche?

“È difficile generalizzare perché ogni caso ha una evoluzione propria. A prescindere da eventi di cattiva gestione si possono comunque individuare delle cause comuni. Molto dipende ovviamente dalla governance delle singole banche, dalle strategie adottate per eliminare le debolezze iniziali e dal rigore morale dei vertici aziendali. Dall’inizio del secolo la conduzione delle banche è diventata oggettivamente più complessa. La banca disegnata da Mattioli negli anni Trenta e vissuta quasi fino al termine del secolo scorso, si basava sostanzialmente sulla politica del credito, della liquidità e dell’intermediazione delle scadenze. Sembrava facile gestirla. Con gli anni 2000 tutto si complica. L’avvento della moneta unica, la liberalizzazione dei mercati, la globalizzazione, la regolamentazione comunitaria fortemente innovativa (per l’Italia) e vincolante rivoluzionano il modo di operare di tutte le aziende. Tutti gli operatori hanno dovuto cambiare in fretta i comportamenti precedenti, dando priorità all’innovazione dei prodotti, alla qualità ed alla ricerca di nuovi mercati. Vanno poi considerate le ricorrenti crisi economiche, finanziarie e ora pandemiche che si sono manifestate fin dall’inizio del Terzo Millennio (l’attacco alle Torri Gemelle con conseguenti guerre al terrorismo nel 2001; la crisi finanziaria nel 2008; la crisi dell’euro nel 2010/2012; la Brexit nel 2016; fino alla pandemia Covid 19). Crisi che hanno reso più difficile recuperare le debolezze già evidenziate nella gestione di alcune banche. Il contesto operativo è perciò divenuto più complesso, anche a causa dell’utilizzo delle tecnologie che hanno reso più evidente la perdita di competitività delle aziende in ritardo nel prendere atto della necessità di variare il proprio modello di business. In pratica, dover passare da una operatività generalizzata di banca commerciale ad una più marcata specializzazione per linee di business, di settori di clientela etc. Non va poi trascurato il fatto che la debolezza di una banca spinge talvolta i manager ad azioni affrettate, quali la vendita di assets profittevoli per avere liquidità, con l’effetto – se trattasi di società prodotto – di indebolire ulteriormente l’azienda; le operazioni rischiose di azzardo morale nella intermediazione finanziaria che possono allontanare la clientela se avverte di godere di scarsa considerazione. Le tre banche oggi più deboli – Monte dei Paschi di Siena, Banca popolare di Bari e Banca Carige – hanno tutte avuto nel passato evidenti problematiche gestionali che hanno complicato il recupero operativo. Alcuni dei segnali più evidenti sono stati il distacco dai territori in cui operavano; i deboli criteri di valutazione del credito erogato e la forza lavorativa eccedentaria (a causa di inefficienze gestionali e/o scelte organizzative non appropriate)”.

Sul Monte cosa si può dire?

“Ritengo difficile avanzare ipotesi di gestione, non conoscendo il dossier e i dati disaggregati per business e per mercati di riferimento. Solo pensare che il Monte, operativo dal 1472 e nel cui Gruppo ho lavorato per oltre 40 anni, costituisca un problema, mi rattrista. Penso che le Autorità competenti stiano già esaminando tutte le ipotesi alternative al piano Unicredit, con coraggio e creatività. Sarei quindi presuntuoso solo ad avanzare ragionamenti sul futuro del Monte. Tuttavia, proprio per il sentimento che mi lega alla Banca più antica del mondo, posso auspicare che si cerchi di scrivere una storia nuova che, partendo dalle radici profonde nel territorio di origine, attraverso competenze che pur ci sono all’interno della banca, si riesca a coniugare un modo sano ed antico del ben operare con le esigenze di innovazione dei modelli di business richiesti dai venti favorevoli provenienti da Bruxelles. Altro non mi azzardo a dire”.

A maggior comprensione, ecco un breve excursus sulle ricapitalizzazioni di Monte dei Paschi di Siena successive all’acquisizione di Antonveneta: il primo aumento di capitale risale già al 2008 per una cifra di 5 miliardi di euro. Nel 2011 un secondo aumento, di 2.152 miliardi. La terza ricapitalizzazione è datata 2014, per altri 5 miliardi. Appena un anno dopo ne arriva una quarta, stavolta per la cifra di 2.993 miliardi di euro. Nel 2017, infine, si arriva a una ricapitalizzazione precauzionale per ulteriori 8.327 miliardi di euro, di cui 5,4 pubblici. L’importo totale degli aumenti di capitale – realizzati nell’arco di appena un decennio – è di 23472 miliardi di euro.

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