Che avremmo dovuto armarci di santa pazienza lo capimmo subito.
Era il primo anno in cui era stato istituito l’accesso a numero chiuso alla facoltà di architettura: il giorno del test le persone in attesa riempivano tutta la strada di fronte all’Università. Sapevamo già di aver scelto di affrontare una strada più lunga delle altre: escludendo medicina, quasi tutte le altre facoltà prevedevano 4 anni di studi e 24 esami, mentre la nostra scelta avrebbe richiesto un anno e 6 esami in più. Malgrado il pessimo impatto e la spiacevole sensazione di sentirsi in balia del caso, stretti nella logica grandi numeri, abbiamo atteso il nostro turno. Pazientemente.
Non crediate che il numero chiuso garantisse ordine e facilità di accesso alle lezioni o ai servizi: abbiamo fatto file per la segreteria, file per consegnare il piano di studi, file per iscriversi agli esami, abbiamo stilato liste per fare revisione e per l’ordine agli esami.
Qualcuno tentava scorciatoie, mettendo fuori una lista non ufficiale prima del giorno previsto: la fortuna aiuta gli audaci, si dice. Capitò però che il professore strappasse la lista illegittima, affiggendo personalmente quella sulla quale segnarsi per rendere valida l’iscrizione: le persone presenti persero il controllo e quasi vennero alle mani per garantirsi un posto nella fila, mentre noi, increduli, aspettavamo che finissero i tafferugli. Finimmo al posto numero 17, lasciato libero da studenti scaramantici.
Abbiamo aspettato in piedi nei corridoi, accatastati sulle scale, all’aperto nel cortile. A volte, dopo ore di attesa, venivamo semplicemente congedati: tornate domani. Allora te ne andavi, stanco e rassegnato, ma convinto di scontare la pena che meritavi in quanto studente, ultimo anello della catena universitaria.
Quando abbiamo iniziato a lavorare pensavamo, ingenuamente, di essere assurti ad una nuova condizione: eravamo professionisti ora, degni di rispetto, operatori tra pari.
E invece eccoci di nuovo in coda: presso gli uffici comunali, le soprintendenze, il catasto, l’agenzia delle entrate, il tribunale. Di nuovo liste di attesa fuori dalle porte, di nuovo tentativi di aggirare gli ostacoli, chiedendo all’amica impiegata comunale di scrivere il tuo nome in una lista per non fare venti chilometri e scoprire che i colloqui disponibili quella mattina sono già stati tutti assegnati. Ti arrabbi, ti lamenti con i colleghi, anche loro in fila, chiedi maggiore considerazione e attenzione e tutela degli interessi del cittadino, che incidentalmente coincidono con i tuoi: Quando il tempo che spendi in attesa è tempo in cui non lavori, e dunque non guadagni, non sei sempre in grado di esercitare pazienza.
Fino a quando la chiusura generale degli uffici a causa della pandemia, invece di rappresentare l’occasione per recuperare il tempo che sarebbe andato perduto per ricevere il pubblico, si è trasformata nell’apoteosi della lentezza e del ritardo che caratterizza la pubblica amministrazione.
Così, accade che, dopo due anni e due mesi di mail e solleciti telefonici, ricevi finalmente una lettera tanto attesa con cui l’Amministrazione ti informa che il Committente ha trenta giorni di tempo per effettuare il pagamento a cui poi seguirà il rilascio del titolo.
E finalmente capisci a cosa siano serviti quegli anni di università: non di certo a preparati alla vita professionale, ma ad allenare la tua capacità di aspettare. Ci vuole pazienza, si sapeva.