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mercoledì, Luglio 3, 2024

Roberto Ferri pittore: dieci in calligrafia ma non passa l’esame

Acclamato senza riserve da certa critica italiana, inneggiante alfiere della scuderia sgarbiana, già storicizzato come nuovo profeta dell’antico da Strinati, Calvesi, Bussagli e celebrato dal mondo del mainstream social, il pittore Roberto Ferri (Taranto, 1978) esprime bene l’impossibilità –da parte dell’arte nostrana – di potersi finalmente sganciare dai morti canoni di una tradizione classicista, accademica e citazionista (a tratti reazionaria), non ancora paga di affabulare gli occhi insensibili del nostro tempo.

Per non parlare dell’iperrealismo fotografico, già fuori moda negli anni ’70 del secolo scorso, incapace di dire altro oltre la mera riproduzione meccanica del dato naturalistico, degenerazione del prodotto ottico della macchina da presa.

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Che poi si scelga più o meno consapevolmente di infarcire e truccare un nudo neo-caravaggesco di apparenti significati metafisici, religiosi o simbolici per rendere il tutto meglio confezionato, un bel confetto da deglutire, la dice lunga sulla mancanza di senso e di interesse che dovrebbero suscitare certe “apparizioni miracolistiche” nello stretto pertugio del contemporaneo italiano.

Indubbiamente il Ferri sa tenere la matita da disegno in mano e possiede apprezzabili doti coloristiche, ma nulla di più, come prima di lui Cabanel e l’infinita schiera dei seguaci ottocenteschi dell’art pompier, attardati difensori della tradizione di fronte a un mondo già aperto all’avanguardia.

L’Incanto, 2019

Tutto già visto, ma la replica è sempre meno felice dell’originale. Irresoluto a comunicare e trasmettere con i valori stessi della pittura, il Ferri squaderna impensabili iconografie para-mitologiche e para-filosofiche imbastardite col fantasy e il fantascientifico, come un redivivo Poussin. Una “frittura mista” che placa bene l’appetito di istantanea meraviglia dei nostri giorni.

Di fronte a un’opera licenziata dal suo atelier non si può fare a meno che urlare edonisticamente al bello come una menade imbizzarrita o chiudersi nel silente raccoglimento di una contemplazione estatica, un bello irrimediabilmente estetico che piace tanto ai sedicenti art advisor di instagram e agli adepti digitali dell’artista, ma anche a un vastissimo pubblico generico che divora qualsiasi cosa venga posta loro sopra al piatto, non troppo distante dalle froge del naso.

Si deve ancora tener presente il presunto misticismo new age che traduce in pittura la vocazione cristiana dell’artista e infiamma il bigottismo nazionale . «Ogni mia opera è quasi come fosse una preghiera a Dio», slogan aberrante se sbandierato con instancabile fermezza nel terzo decennio del nuovo millennio. Un madonnaro fuori tempo massimo, del tutto estraneo al caos febbrile del post-moderno, interprete democristiano dell’arte naufragata, senza possibilità di redenzione.

La bellezza non ha salvato il mondo, speriamo ci riesca la cultura. Dobbiamo riflettere se tali scelte formali e ideologiche riflettano la sterilità critica e la sofferenza creativa della nostra epoca e di conseguenza se il pittore possa davvero essere elevato agli onori degli altari come profeta del presente, nell’attesa speranza di nuove tendenze sperimentali, che non per forza neghino la tradizione ma che perlomeno la problematizzino, mettendola in discussione. Roberto Ferri pittore, dieci in calligrafia ma non passa l’esame.

Nella foto copertina l’autore della rubrica Francesco Salerno davanti al San Giovanni Battista del Duomo di Montepulciano

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