Giulio Griccioli, la Cina, i Beijing Ducks ed il development project

Chi sceglie di vivere lo sport come professione non sempre ha il privilegio di poter rappresentare la sua città, ma non è il caso di Giulio Griccioli. Eccellenza del basket cittadino, Giulio ha cresciuto generazioni di cestisti, dando il suo importante contributo alla Mens Sana Basket degli anni d’oro per poi tornare in viale Sclavo, dopo le esperienze di Casale Monferrato e Scafati, per sedere sulla panchina della Mens Sana Basket 1871 in A2. Poi la Virtus Bologna ed infine la Cina.

Vieni da una scuola di basket come quella senese tra le migliori d’Italia, ma scegliendo di fare l’allenatore professionista la tua carriera ti ha portato anche altrove. Cosa hai portato delle tue radici nei posti dove sei andato?

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“Nel 1999 presi quasi per caso l’occasione che si è poi rivelata la scelta di una vita. Simone Pianigiani mi chiamò alla Mens Sana per fargli da spalla nel settore giovanile. Mi fu chiesto di provare a farlo a tempo pieno e mi detti un anno per capire se fosse stata o meno la cosa giusta da fare. Alla fine di quella stagione rimasi impigliato nel vortice della professione di allenatore. Furono anni (11 ndr) pieni di soddisfazioni, in cui si lavorava sulla pallacanestro 24 ore su 24, avevamo l’ambizione di pareggiare realtà che avevano molte più possibilità di noi, e lo facemmo. Questo mi sono sempre portato appresso, lavoro, qualità, curiosità di sperimentare, etica. Ovunque sono andato ho cercato di portare qualcosa di quella esperienza e di lasciare dietro di me qualcosa di tangibile, che fosse un giocatore del posto lanciato nel professionismo o un giovane allenatore che divenisse una risorsa del club che mi aveva accolto. A volte ci sono riuscito, altre no, ma la nostra educazione al lavoro mi ha sempre spinto a provarci”.

Dopo una parentesi a Siena in A2 ed a Bologna come assistente di Sacripanti hai scelto di seguire Simone Pianigiani in Cina. Raccontaci la tua esperienza di questi due anni.

“Mentre scrivo sono ancora nel viaggio che mi sta portando a Pechino… mi sento un po’ un mercante veneziano di altra epoca che ha percorso la “via della seta”. Sono partito da 30 giorni e ne avrò per altri due o tre, il tutto a causa della pandemia che ha reso tutto più complesso, rendendo la Cina più lontana di quello che non sia in realtà. Difficile risponderti in breve…ti trovi catapultato in un mondo dalle tradizioni antichissime che restano vive nei modi e nell’educazione, pur in un mondo modernissimo che viaggia alla velocità della luce nel progresso della tecnologia del futuro. Devi adattarti ad un modo di vedere le cose, di affrontare problemi e dare risposte, che ha poco in comune con il mondo da cui provieni. Ti faccio un esempio pratico, quasi stupido, ma che può rendere l’idea Ci troviamo a giocare il campionato in una “bolla”. Mi informo su dove andremo e mi viene risposto, candidamente, che saremmo andati in una piccola città del sud, che peraltro nessuno sapeva ben collocare (d’altronde la Cina è sì uno stato unitario, ma abbraccia nella pratica un continente). La testa di Italiano ed europeo alla voce piccola pensa a Siena, Perugia, magari Firenze (che per noi non è nemmeno tanto piccola). Ecco questa “piccola” città cinese aveva un milione e ottocentomila abitanti. Questo per dirti cosa, che a partire dalle dimensioni, qua è tutto moltiplicato all’ennesima potenza. Un esperienza entusiasmante sia sotto il profilo lavorativo che socio-culturale. Chiamano stranieri (americani, australiani, europei) per far crescere il movimento cinese, per apprendere nuove linee di lavoro, nuove idee da  sviluppare  poi in  proprio.  Ci  sarebbero tante  cose  da  raccontare, ma sicuramente il primo scoglio da superare è cercare di entrare nel loro modo di intendere le cose, nel loro modo di interpretare parole e atteggiamenti che è molto diverso dal nostro. Sono in generale diffidenti, devi con fatica guadagnarti la loro fiducia. Non è stato semplice, ma credo, almeno in parte, di aver sviluppato una efficace empatia professionale e personale con giocatori e staff. D’altronde in un momento molto complesso della stagione, mi sono ritrovato a fare il capo allenatore per 10 partite, cosa che di sicuro ha accelerato il processo di integrazione, mi sono fatto conoscere anche al di fuori della cerchia della squadra, guadagnandomi la stima del management e dei tantissimi fan dei Beijing Ducks. Il mio lavoro e le professionalità che mi porto nella bagaglio sono state apprezzate, tanto è vero che sarei potuto anche non tornare, ma mi è stato chiesto di onorare il mio contratto, cosa che rappresenta un riconoscimento tangibile  di  quanto  ho detto sopra. A tal proposito, oltre a proseguire la collaborazione con la squadra di CBA, mi è stato chiesto, grazie alla mia profonda conoscenza del settore, di riorganizzare il loro “development project”. Da anni non riescono a produrre giocatori di alto livello. Per le regole che ci sono qua avere ragazzi che arrivano in prima squadra e lo fanno con un livello alto di competenze è essenziale per la sopravvivenza anche di club ricchi come il mio. Si è aggiunta quindi una sfida nella sfida che affronterò con grande entusiasmo e curiosità”.

Sei dall’altra parte del mondo, lontano dalla famiglia, dagli affetti e dalla tua città. Cosa ti manca ti più?

“Essere all’altro capo del mondo in questo momento delicato dovuto alla pandemia non è stato semplice e non lo sarà in questa stagione, ma era ed è una opportunità unica da cogliere. E’ stata una scelta ponderata con tutta la famiglia, Simone (guarda caso lui stesso a più di vent’anni di distanza) mi ha fatto una telefonata proponendomi la cosa e 24 ore dopo gli ho dato la mia disponibilità. Il piano che avevamo fatto con Alessia, doveva essere quello di farmi seguire quest’anno da tutta la famiglia, ma a causa delle regole imposte dal governo sugli arrivi in Cina, non era semplice ed abbiamo deciso di soprassedere dal progetto, almeno per ora. La lontananza dagli affetti pesa senz’altro, sei lontano, ma in fin dei conti se non ci fossero tutti i paletti dovuti alla pandemia, le distanze al giorno d’oggi sarebbero molto assottigliate. Tornare anche per una settimana in Italia adesso è impossibile. Pesa, ma, come ho detto prima, è stata una scelta condivisa e ponderata, benché senza dubbio una prova importante da superare. Compatibilmente con le 6 o 7 ore di fuso orario ci sentiamo molte volte al giorno condividendo molti momenti della giornata, questo aiuta a sapere sempre tutto gli uni dell’altro e tiene vivo un contatto costante, purtroppo non fatto di presenza fisica, ma di sicuro morale. In fin dei conti quando 12 anni fa ho iniziato a girare l’Italia, per 10 mesi l’anno sono comunque mancato da Siena, dalla famiglia, dagli amici, dalla Contrada, adesso sono solo più lontano di sempre”.

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