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venerdì, Maggio 10, 2024

I semi di tiglio

Le masse senesi descritte con gli occhi di un bambino dalla mente vorace e l’attenzione selettiva

Oggi riprendiamo il nostro amico Luca Gentili con la sua rubrica e peschiamo il primo pezzetto dalle sue memorie di infanzia. Troviamo il “nostro” con oggetti strani sulla scrivania. Voodo? No, per quanto i suoi viaggi abbiano dimensione globale, in realtà da quelle parti, finché non farà la prima escursione in moto d’acqua, non ci risulta che abbia frequentato. E’ roba orientale.

Ci spiega: “Questo – vedi foto copertina – è quello che tengo sulla scrivania un budda dalle quattro facce, un grappolo di campanelli chöömij che spesso sono usati in Mongolia durante una narrazione e una piccola statuina di Ganesh che è il dio degli inizi. Li ho raccolti in tempi diversi ed in luoghi diversi eppure non ho potuto fare a meno di acquistarli e unirli”.

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I Semi di Tiglio

Il tavolo è freddo sotto le gambe nude, il marmo anche nelle calde mattine sembra di ghiaccio, la mamma mi aveva depositato lì, in attesa che Marina finisse di rassettare la cucina…

Il grande piano con la pesante lastra, mi appariva come una piazza infinita, mi trastullavo assonnato seguendo con le dita le venature che separavano il bianco dal nero della pietra, nessun pensiero passava per la mente, solo bisogni primari…

Il sonno che rende pesante lo sguardo, la sete, la fame, all’improvviso mi giro, sul sorriso di Marina, è lì di fronte a me, mi porge una grande fetta di pane, con burro cosparsa di zucchero, nell’altra mano, una tazza di latte, che immediatamente calma le mie ansie, le mie necessità.

La mamma era corsa via, affannata come ogni mattina, insegnava in una piccola scuola di campagna, una lunga polverosa strada bianca l’attendeva.

La grande casa del nonno, intonacata di bianco, dove vivo, sul limitare della trafficata Cassia, è al margine del suo podere, il mio mondo inizia tra i due grandi pini, che presidiano l’ingresso, sono le mie colonne d’Ercole, invalicabili, pena indicibili punizioni.

Tata Marina con un piccolo sculaccione, mi spedisce fuori, come ogni mattina a giocare con gli altri bambini; scendo le scale appeso al pesante corrimano di legno, strisciando la pancia sul muro, le mie corte gambe ancora non hanno il passo per superare gli alti scalini.

Il portone di legno giallino si apre su una piccola aia, lastricata di pietre bianche intarsiate di verde erba, negli angoli, quattro tigli, qualcosa si muove nell’aria, rimango incantato a guardare i primi semi caduti dagli alberi, fluttuano, si avvolgono, un piccolo grappolo, sorretto da due delicate alette roteano nella brezza, accovacciato sui talloni, in quello strano equilibrio che solo i bimbi possono tenere, attendo lo zigzagante atterraggio.

La mia attenzione, la cosa che mi aveva tanto stupito, svanisce, dura l’istante di un attimo, alzo la testa al vociare dei bimbi, lascio i delicati semi al loro povero destino, non prima di averli ben schiacciati sotto ai talloni, così si fa con le noci, così si fa con le mandorle, anche questi avranno qualcosa dentro pensai, deluso dalla poltiglia.

Mi alzo di scatto e seguendo le grida prendo a correre giù per la scesa verso la stalla di Virgilio, passo davanti al pollaio e al limitare del campo, sul bordo del fosso un crocchio di ragazzini tormenta un povero rospo, che gonfio li guarda atterrito, non vedo bene, sono il più piccino, non capisco, non mi sembra troppo divertente.

Mi giro, la porta della stalla è aperta, il pesante carro di legno, dalle grandi ruote cerchiate di ferro vi staziona davanti, una coppia di bianche chianine dalle lunghe gambe, sotto il giogo ritorto staziona in attesa, ruminano mordendo la rugginosa morsa, un lungo filo bianco di bava arriva fino a terra, un anello si infila nell’umido naso, gli passo dinanzi, la coda cerca invano, frustando la schiena, di scacciare le mosche, il possente corpo vibra come percorso da una elettrica scossa nell’inutile tentativo di interrompere il banchettar dei tafani.

Mi affaccio sull’uscio, la grande lama del trinciaforaggi rotea nell’aria, sminuzza, frantuma, riduce in piccoli pezzi, ogni fascina che con ritmica cadenza Virgilio getta nelle sue fauci, il tritato si accumula sul pavimento in una soffice montagna, l’odore di erba è forte, copre quello di piscio e letame.

Mi giro distratto dal rotear di un moscone, vedo Livio nell’orto, nascosto tra i filari con un cesto appoggiato sul fianco raccoglie piselli, lo raggiungo, stacco un baccello, lo apro premendo la costa, i tondi semi mi finiscono in mano, li schiaccio tra i denti.

Livio mi chiama mi prende per mano, insieme saliamo la china che porta alla casa del nonno.

(2 – continua)

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